23 Agosto 2024

“Perché continui a tormentarmi, Mondo?” I sonetti di Suor Juana Inés de la Cruz

Serrata tra i contrasti, la vita di Suor Juana Inés de la Cruz. Figlia illegittima di un nobile errante e di una creola semianalfabeta, si educò da sé, nella biblioteca del nonno. Visse in una fattoria, in altura, tra i vulcani, il Popocatépetl e l’Iztaccíhuatl – la ‘scenografia’ attorno a cui ruota Under the Volcano, il grandioso, ebbro romanzo di Malcolm Lowry – che forse influirono sulla sua indole. Sapeva sfidarsi: se non riusciva a studiare, quel giorno, quanto si era imposta, si tagliava i capelli, bellissimi. Tutto ha fatto per sfigurarsi, per mutare volto e vello linguistico: che nessuno si fidasse della sue fattezze, geniale nel contorsionismo semantico.

Sul suo viso fioriva l’audacia, una avvenenza senza fronzoli, che metteva in mostra per dimenticarsene. Nella corte del Viceré, fece fragore la sua intelligenza, la celestiale precocità; emanava il cupo fascino delle irraggiungibili. Per questo – per dire – tra il talamo e la scrivania, scelse quest’ultima, tra il matrimonio e la cella non ebbe altra scelta che sfoggiare la castità – al cuore pollaio preferì la mente leopardo. Ventenne, si obbligò tra i Carmelitani scalzi; optando, quasi subito – a causa dei rigori accessivi – per l’ordine di San Girolamo. Ciò le permise libri, strumenti musicali, un’attività artistica di labirintica possanza: nel 1689, la pubblicazione dei suoi sonetti come Inundación Castálida la fece conoscere al mondo intellettuale spagnolo.

Pochi anni dopo, la proverbiale difesa della propria libertà d’indagine – la Risposta a Suor Filotea –, il mutamento del vento vescovile e delle corsie di corte, l’abbandono di ogni atto letterario. Siamo nel 1693 e Suor Juana si libera di libri, strumenti musicali e armamentari scientifici. Qualcuno, a vigor di vipera, disse dei suoi interessi alchemici, di un argomentare con scaltrezza contro l’istituzione ecclesia. Così padre Diego Calleja nella Vida de sor Juana (1700):

“La peggiore amarezza che la madre Juana patì senza un tremito sul viso fu quella di disfarsi dei suoi amati libri, come colui che appena si affaccia il mattino spegne la lucerna artificiale, ormai inutile. Ne lasciò alcuni per uso delle consorelle e ne inviò copiosa quantità al Signor Arcivescovo di Città del Messico perché li vendesse e col ricavato facesse elemosine ai poveri, sì che con questo uso fossero utili alla sua intelligenza più che se li avesse studiati. La stessa buona sorte ebbero anche i molti strumenti musicali e matematici, rari e preziosi, che possedeva. Le pietre preziose e anche la chincaglierie e gli altri oggetti che le avevano regalato illustri personaggi, anche di lontani paesi, ammiratori della sua fama, tutto ella convertì in denaro col quale, venendo in aiuto a molti poveri, acquistò pazienza per loro e cielo per sé; e non lasciò nella sua cella altro che tre libriccini di devozione e molti cilici e flagelli”.

Nel pio resoconto tralucono – gemellare parto del mulo obbediente – la canaglieria dei superiori e l’arte del disprezzo di Suor Juana, consapevole che l’opera d’arte si alimenta polverizzandola, si compie disintegrandola da sé. Morì poco dopo, come si sa, nel 1695, tra il giubilo dei mestatori di imbrogli; la sua riscoperta – soprattutto, da parte del premio Nobel Octavio Paz – è tardiva, Suor Juana è tra i grandi poeti del Novecento, la sua novità, inesausta, ci continua a sopraffare.

Che fa dunque con la poesia Suor Juana? Ritenta e ritempra il genio barocco, l’agudeza di Quevedo, di Lope de Vega, di Góngora, conferendo a ciò una nuova inquietudine. Il gioco letterario è sempre ambiguo, in lei, lo schema del sonetto è, allo stesso tempo, oceano e cella, giogo e bosco, strettoia affollata di tigri. A un primo livello di lettura – la schermaglia verbale, il duello concettuale –, letterario, ne segue un altro, periglioso: Suor Juana annienta ogni contrasto, apre per noi uno spazio vuoto, il nulla. Risuonerà mai, lì, l’eco di Dio? Cosa vuol dire poesia, d’altronde, se non: assenza di Dio e materia di predazione? Oh, sì, Suor Juana ha la nobiltà di un astore: i sonetti recano l’ingegno della grande caccia. Il cerchio verbale si stringe finché tu, lettore, ti scopri preda della mente di Suor Juana, colma di artigli, con un dodecaneso di becchi sul viso, sulle gambe. Quando scrive l’amore, Suor Juana desertifica ogni possibilità di amare: la sua regola d’arte è l’adamantina indifferenza; in questo – senza lo zucchero della confessione o del lamento – lei è regale. La regalità è il carattere principale di Suor Juana – cui fa specchio l’altro: la virilità –, merce rara in poesia: consente di porre il Minotauro al centro del marchingegno lirico e di salvaguardare la sua ferocia (Amor es más laberinto è l’opera teatrale, del 1689, che Suor Juana dedica al mito del Labirinto). Nessuna morale se non la moria dei moralisti, nei versi di Suor Juana.

I sonetti, così, non sono oggetti del linguaggio, ma rebus, spine avvelenate, il caos in rima. Credo che la devozione, in Suor Juana, sia bilanciata dall’ira, da un fervore d’intelletto all’assalto: l’arte “è ombra e niente”, scrive, con l’ebbrezza di chi inghirlanda il nulla di aggettivi. E Iddio dov’è? Il mostro non può mostrarsi: perché sia vero colui che agguanta, bisogna dissodare la boscaglia, preparare la via; arte che emana odore.

Lo specchio-sonetto va auscultato per ideare l’infinito e farlo a pezzi: poesia esangue la dirà un lettore superficiale; poesia di un corpo che muore, scritta col sangue, invece. Come di bestia satura di luce, che si spegne senza pianto, accasciandosi, e nulla chiede – di nulla deve ringraziare.

***

Si lamenta della fortuna: allude alla sua avversione per i vizi, e giustifica il suo divertimento davanti alle Muse.

Perché continui a tormentarmi, Mondo?
Come ti offendo, se il mio intento
è dar bellezza al mio intendere,
senza che alcuna bellezza sia intesa?

Non m’importano tesori né ricchezze,
maggiore è il mio contento
se do ricchezze al mio pensiero
senza pensare alle ricchezze.

Non m’importa l’avvenenza che, vinta,
non è che civile calcina degli anni
né mentitrice ricchezza mi abbaglia,

avendo a cuore le mie convinzioni,
sconfiggo le vanità della vita
senza farmi sconfiggere da una vita vana.

*

Mostra il suo dispiacere per le ingiurie che il successo del suo talento le ha procurato.

Oh Fato, tanto grande è il mio delitto
che per castigo o per tortura
non bastano i tormenti che mi infliggo:
vuoi sussurrarmeli all’orecchio?

In modo così severo contro di me hai agito
che ora mi è chiaro il tuo duro proposito:
intelligenza mi hai concesso unicamente
perché il mio danno fosse più intenso.

Applausi hai ammesso perché mi ingiuriassero;
al vertice mi hai posto per magnificare la pena;
penso perfino che con perfidia hai permesso

pene impari alla mia sventura:
vedendomi ricca dei tuoi doni
nessuno avrà pietà dei miei mali.

*

La stessa questione continua e determina che la ragione debba prevalere sul piacere.

L’ingrato che mi lascia, cerco amante;
l’amante che mi insegue, lascio ingrata;
costantemente adoro chi il mio amore maltratta;
maltratto chi il mio amore cerca costante.

Diamante è per me chi tratto con amore,
diamante sono per chi con amore mi tratta;
voglio veder trionfare chi mi uccide,
uccido chi mi vuole veder trionfante.

Se a uno mi concedo il desiderio langue;
se l’altro imploro la dignità si estingue:
in entrambi i casi sono infelice.  

Ma io scelgo il gioco ardito:
essere di chi non amo violento oggetto
e mai di chi non mi ama vile ostaggio.

*

Cerca di dimostrare l’infondatezza delle lodi che a un ritratto della poetessa sono state rivolte dalla verità che lei chiama passione.

Quello che vedi, idolo a colori,
che dell’arte ostenta gli splendori,
con falsi sillogismi colorati
è un malizioso inganno dei sensi;

questo, nel quale la lusinga ha osato
della vecchiaia eludere gli orrori
e sconfiggere del tempo i rigori
trionfante sugli anni e sull’oblio:

è un vano artificio di premura;
è un fiore gracile nel vento;
è un inutile scudo contro il fato:

è una stolta e fasulla dedizione;
è un affanno fugace e, a ben guardare
è cadavere e polvere, è ombra e niente.

*

Insegna il modo di amare senza troppi dispiaceri.

Non posso tenerti né lasciarti,
ma nel lasciarti o nel tenerti non so
perché trovo un nonsoché per amarti
e molte ragioni per dimenticarti.

Poiché non vuoi lasciarmi né cambiare
accorderò il mio cuore in modo tale
che una metà sia incline ad abolirti
mentre l’altra mirerà sempre ad amarti.

Se nostra sorte è amarci, accogli questo accordo,
visto che litigare è sempre un po’ morire:
non si dica più di gelosia né di sospetti,

da chi dà la metà non pretendiamo il tutto;
quando credi di potermi ingannare
ricordati che già ti rendo la controparte.

*

Consola un geloso, riepilogando la parabola dell’amore.

Inquietudine è il primo giorno di Amore,
seguono apprensione, veglia e bramosia;
Amore matura nel rischio, nella sfida
e nel sospetto; si nutre di pianti e di preghiere.

Lo addestrano indifferenza e distacco, 
si serba tra fallaci veli,
fino a che tradimento e gelosia
serrano tra le lacrime il suo fuoco.

Se inizio, crescita e fine sono questi:
perché mio caro Alcino, ti affligge il distacco
da Celia che prima ti amava tanto?

Che senso ha tutto questo soffrire?
Non è Amore ad averti ingannato, Alcino,
semplicemente la parabola è giunta al termine.

*La traduzione delle poesie è di Diana Mazon

In copertina: ritratto di Suor Juana realizzato da Andrés de Islas, 1772

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