“Fecero scempio di cose vere”: le poesie di Egle Marini
Poesia
Blu Temperini
George Orwell, riguardo alla poesia, aveva le idee chiare, denunciate, come sempre, con una prosa chiara, corrosiva, marziale. In un saggio pubblicato su “Horizon” nel 1943, ad esempio, diede a William Butler Yeats, il più grande poeta del suo tempo, del fascista.
“Tradotta in termini politici, la tendenza di Yeats è fascista… Yeats odia la democrazia, il mondo moderno, la scienza, le macchine, il progresso e soprattutto l’idea dell’umana uguaglianza… Yeats, il poeta, comprende a colpo d’occhio che fascismo significa ingiustizia: proprio per questo lo acclama”.
Yeats non poté rispondere, era morto nel 1939. In quel saggio, tuttavia, Orwell dice una cosa importante: l’estro lirico di un artista non è disgiunto dal suo credo, dalla sua visione del mondo. O meglio:
“le convinzioni politiche o religiose di uno scrittore non sono bizzarre escrescenze, ma idee che lasciano il segno anche nel più piccolo dettaglio della sua opera”.
Orwell apprezzava le poesie di Yeats, ne dileggiava le ingenuità politiche (“Yeats non capisce che la nuova civiltà autoritaria, se mai arriverà, non sarà aristocratica”).
Più o meno negli stessi termini – sempre su “Horizon”, nel 1942 – Orwell si esprime sull’opera di Rudyard Kipling. Gli pareva “disgustoso” che uno scrittore del suo calibro “si identificasse a tal punto con il potere dominante”, si fosse “venduto alla classe dirigente britannica”. Eppure, amava la sua poesia: concreta, frugale, facile, che “tratta di luoghi comuni perché viviamo in un mondo di luoghi comuni”. Per un istante, la possanza estetica ha ragione sull’etica:
“le peggiori follie di Kipling ci paiono meno superficiali dei concetti ‘illuminati’ dei poeti del suo tempo – e degli epigrammi di Oscar Wilde”.
Alla barbarie modernista – che squalifica il linguaggio in un pollaio di locuzioni incomprensibili – Orwell opponeva il verbo rotondo, alle avanguardie rispondeva con l’ironia nera. Di Thomas S. Eliot – che rifiutò di pubblicargli La fattoria degli animali – preferiva La terra desolata rispetto ai vaticini teologici dei Quattro quartetti. I suoi strali, tuttavia, erano per lo più riservati a Wystan H. Auden (“un Kipling privo di fegato”) e a Stephen Spender (“violetta dei nostri pensieri alla moda”), campioni della sinistra à la crème: in un altro contesto – interpellato dalla “Left Review”, durante la guerra civile spagnola – li aveva ribattezzati “finocchietti modaioli”. Il suo poeta prediletto era Thomas Hardy, “un uomo semplice, riservato, alieno alla vita mondana… un genio poetico profondo”, secondo il ricordo vergato da Virginia Woolf.
La dottrina lirica di Orwell non deve stupirci. Prima di diventare romanziere, di tramutarsi in un brand tra i più noti al mondo, George Orwell sognava di fare il poeta. Lo dice lui, in un saggio del 1946, Perché scrivo, pubblicato su “Gangrel” (in Italia lo trovate nel ‘Meridiano’ Mondadori che raccoglie Romanzi e saggi di Orwell, 2000).
“Scrissi la prima poesia all’età di quattro o cinque anni, dettandola a mia madre… penso che il mio componimento fosse un plagio di Tiger, Tiger di William Blake”.
Gli esercizi poetici, estrosi, precoci, con la felicità degli esordi – “a quattordici anni impiegai una settimana circa per scrivere un’intera opera teatrale in rima a imitazione di Aristofane” –, non si fermano all’adolescenza: per tutta la vita, pur in modo discontinuo, Orwell scrive poesie. Gli ultimi versi, del 1949, hanno l’acuto di un addio (“Non c’era niente da fare. Non riusciva a ricordare./ Non restava niente della sua infanzia…”): Orwell sarebbe morto l’anno dopo, in gennaio. A sedici anni, la lettura del Paradiso perduto di John Milton lo aveva convinto a scrivere “enormi romanzi naturalistici, tutt’altro che a lieto fine”.
Per ragioni non semplicemente esornative, dunque, Marco Settimini ha curato l’opera poetica di Orwell in un libro edito da De Piante come Non m’importa se Dio muore (in appendice è tradotto il saggio La poesia nonsense, uscito in origine su “Tribune” nel 1945). Le poesie di Orwell vengono esibite per scoprire che “dietro allo scrittore di fama George Orwell ci fu un bambino e poi un uomo di nome Eric Blair”. Le poesie di Eric Blair, cioè, ci aiutano a capire le motivazioni fondamentali dell’opera di Orwell, più citata che letta, ridotta, per lo più, a un romanzo, 1984, di cui si è fatto abuso – non esiste editore italiano che non lo abbia incastonato nel proprio catalogo – fino a ridicolizzarne il senso in un canile di opinioni da talk. Eric Blair aka George Orwell non è riducibile a esigenze di parte o di partito, è “sempre sfuggente alle più banali classificazioni… impossibile oggetto di appropriazioni, sempre altro e altrove” (Settimini).
Dunque, come suonano le poesie di Orwell? Lui le definiva, sfottendosi, “brutte, spesso incompiute, di argomento naturale e in stile georgiano”. In realtà, sono poesie spesso spiazzanti, ciniche (“Non tutte le urla di ventimila vittime/ Schiantate sulla ruota o immerse nell’olio bollente/ Potrebbero darmi pena come il dolore a un dente”), inaspettatamente gnomiche (“E l’ignaro uccello benedice l’eterna estate, lavora/ Gioioso, forte, orgoglioso, allegramente piumato,/ Ignaro del falco e della neve e delle notti gelate,/ E della morte cui è destinato”). Chi vuole scoprire nelle poesie di Eric Blair i temi canonici dei romanzi di George Orwell deve leggere St. Andrew’s Day, 1935, che parla del “Signore di tutto, il dio-denaro,/ Che ci governa sangue e mano e mente” e “Che spia con gelosa, vigile cura,/ I nostri pensieri, i modi e i sogni”. Gli storici della letteratura sistemeranno stoicamente Orwell nell’album dei grandi romanzieri che furono poeti a metà – il parterre è importante: citiamo, tra i tanti, William Faulkner, Ernest Hemingway, James Joyce; in Italia abbiamo avuto, per dire, Paolo Volponi, Giorgio Bassani, Ottiero Ottieri –; gli orwelliani di ferro andranno in brodo leggendo As One Combatant to Another. In quel cupo poemetto – pubblicato su “Tribune” il 18 giugno del 1943 – Orwell sputtana gli intellettuali ‘impegnati’, i pacifisti a libretto paga (“Ti gettano pure del denaro, come gli orsi ottengono i bocconi,/ Per gridar ‘Pace’ dietro uno schermo di cannoni”), gli ipocriti impenitenti (la loro formula aurea? “Lamentarsi del caos quando in Germania bombardiamo una città,/ Ma quando vengono uccisi i cechi non preoccuparsene neanche,/ Offrire all’India uno sbrigativo goccio di pietà/ Ma non indagare cosa succede più a oriente;/ Non menzionare gli ebrei – finger che la guerra e i suoi orrori/ Siano soltanto un racket ‘organizzato’ dai Tories”), che non osano attaccare Stalin ma “solamente Churchill”. Insolito – non per forza gradevole – esperimento di poesia “politica” (mai “civile”, vivaddio).
Da bambino, George Orwell sognava “di essere Robin Hood”; da adulto, ha capito che il Grande Fratello si abbatte con la poesia, che la lirica è il solo antidoto all’omologazione del linguaggio. Tutto si può controllare e conquistare tranne il segreto di un verso, che sa nascondere i propri veleni. Ritenuta inutile e inerme dai più, la poesia è la sola libertà che ci resta. Per questo ogni dittatura – tirannica o “democratica” che sia –, per giustificarsi, annienta il poeta.
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“Che parroco felice avrei potuto essere”
Che parroco felice avrei potuto essere
Un paio di secoli fa, i sermoni a pascere
Un qualche gregge con l’eterna condanna
E a guardar le mie piante di noce crescere;
I pastori però son tutti belli rasati,
Ed io son nato, ahimè, in un tempo malvagio:
I peli son cresciuti sopra il mio labbro
E ho mancato quel piacevole rifugio.
Eravamo così semplici da accontentare,
Si era ancora in un’epoca buona, a quel tempo,
Cullavamo i nostri pensieri inquieti
A dormir sugli alberi, nel loro grembo.
Ignoranti, le gioie che ora dissimuliamo
Le osavamo possedere ed eravam felici;
Il passero verde sul ramo del melo
Poteva pure far tremare i miei nemici.
Ma i ventri di ragazza e le albicocche,
I cavalli, le anatre in volo all’alba sullo stagno,
Il rutilo in un’ombrosa corrente,
Sono ora soltanto un sogno.
Vietato è sognar di nuovo;
Le nostre gioie menomiamo o vogliam celare:
I cavalli son fatti d’acciaio cromato
E grassi omuncoli li posson cavalcare
Sono il verme che mai divenne
Farfalla, l’eunuco senza harem;
Tra il prete e il commissario
Cammino come Eugene Aram;
E il commissario fa il chiromante,
La radio accesa nel mentre,
Ma il prete ha promesso un Austin Seven,
Perché Duggie paga sempre.
Sognai di vivere in delle sale di marmo,
E mi son svegliato scoprendo che era vero;
Non ero nato per un’età come questa;
Lo era Smith? Lo era Jones? E tu, tu lo eri o meno?
“The Adelphi”, novembre 1936. Le ultime tre strofe erano già state edite nel saggio “Perché scrivo”, 1935.
*
“C’erano ancora quelle vedute?”
C’erano ancora quelle vedute di case del diciannovesimo secolo,
Marcescenti, con i lati puntellati di ceppi di legno,
Le finestre rattoppate con cartone e i tetti con lamiere,
I folli muri dei giardini cadenti in ogni direzione?
E i siti bombardati dove la polvere di calce mulinava nell’aria
E l’epilobio si diffondeva sui cumuli di macerie;
E i posti dove le bombe avevano spazzato un lotto più ampio
E lì eran spuntate sordide colonie di casupole di legno
Simili a dei pollai?
Non c’era niente da fare. Non riusciva a ricordare.
Non restava niente della sua infanzia………
1949