“Mi faccio carico di tutto ciò che è osceno”. Nel sangue di Nitsch
Arte
Dejanira Bada
In Perù era comune appiccicare dei capelli veri al Crocefisso. Gesù, nella teca del museo etnografico, mi pareva un fantoccio, un feticcio. Mi raccontavano che alcune donne, su cui ribolliva il dolore, dopo aver preso rifugio in monastero si tagliavano i capelli. Il cranio scintilla come un diamante e i capelli sono raccolti dalle consorelle in sacchi, per essere offerti all’artista. È una corona, per chi ha scelto la dimora calva, che i propri capelli vengano appiccicati sulla testa di Cristo. I Crocefissi che ho visto hanno lunghi capelli, ondulati: facilitano l’andatura dell’apparizione, forse. Di solito, sono Crocefissi rudimentali: non devono essere belli, d’altronde, ma afferrati, oscillati. Branditi. Sollevati. Come torce.
Il mio viaggio a Lima fu all’incirca infernale. Non mi piaceva quella metropoli che rigurgitava gente, feroci disparità, un rischio glabro; l’oceano, grigio, mi restò inaccessibile. Mi salvò – letteralmente: passai ore di assoluto, assurdo vuoto in un albergo che si chiamava “Ariosto” – Francisco de Zurbarán, il grande pittore spagnolo. Ho scoperto i suoi quadri in una chiesa della capitale: la compassione inflessibile, le figure statiche, stabilite, risolte, come se sempre fosse l’ora e ovunque la chiamata mi hanno insegnato una rapida disciplina. Zurbarán, maestro di pittura a Siviglia, comincia a inviare quadri in Sud America dal 1636; ho immaginato il suo viaggio oceanico: conosceva le stelle e gli strumenti di precisione, amava i cavalli, vide la tortura, l’uomo frastornato dalla fama. Era un cauto seduttore: sapeva l’aritmetica dell’ombra, il gorgoglio degli intrighi, e che i corpi, fratturati da incertezze di luce, sono una menzogna (e dunque, verità che rabbrividisce). Non gli piaceva l’azzurro – i colori troppo accesi del Sud lo smarrivano. Si dice che la stessa attrazione che si ha per le alcove oscure di una chiesa, quelle buie piscine dove ogni confessione è dispari, si avverte anche sul ciglio di una giungla, sulla soglia tra norma e smarrimento. I volti di alcune sue donne – penso a Sant’Agata – sono così delicati che si sbriciolano se li guardi troppo. I fondi scuri assegnano un carattere inderogabile ai ritratti di Zurbarán, l’ascia della contemplazione, della precarietà, del servo arbitrio.
Zurbarán ha dipinto l’Agnus Dei più bello che conosca: è al Prado ed è stato realizzato tra il 1635 e il 1640. Non esistono molte raffigurazioni, così lampanti, dell’Agnello di Dio: il più celebre è quello di Jan van Eyck, al centro del Polittico di Gand; lì l’Agnello, sull’altare, ha la postura di un leone. Altrimenti, l’Agnello appare ai piedi della Croce, come ornamento simbolico – ad esempio, quella di Matthias Grünewald, nel pannello centrale dell’Altare di Isenheim –, è dipinto sulle vetrate delle cattedrali, inciso sulle colonne. Raffigurato, spesso, con la croce, mentre dal petto stilla il sangue, che scintilla nel calice, l’Agnello ha atteggiamento severo, regale. L’iconografia, però, predilige la Crocefissione, la Pietà, o il Cristo risorto: vogliamo l’uomo, il viso, il livore sul santissimo.
L’Agnus Dei è l’opposto dell’Ecce Homo: da una parte Ponzio Pilato annuncia il punto più basso di Cristo, la sua riduzione a uomo, a uomo sofferente, dato in consegna alla folla; dall’altra Cristo assurge a puro simbolo, riassunto di tutti i contrasti, apice della riscossa. Il sangue dell’Ecce Homo è sangue umano, invalido, vero; quello dell’Agnus Dei è il sangue che lava le colpe. Ecce Agnus Dei, ecce Qui tollit peccatum mundi. Se in Esodo l’agnello “senza difetto, maschio, nato nell’anno” va immolato per stornare l’ira di Dio, a Pasqua, che passa in rassegna “ogni primogenito nella terra d’Egitto, uomo o animale”, l’Apocalisse – il testo che conclude il Testo – rimbomba dell’ira dell’Agnello, nell’ora del riscatto, contro il male radicale, totale, simboleggiato in singulti e bestie. L’ira di Esodo è circoscritta in un tempo, in uno spazio, agisce per la salvezza di un popolo; l’ira dell’Agnello rade al suolo i tempi, il pianeta, l’umanità. Nel Primo Testamento ci si riferisce all’agnello come alla bestia offerta “in olocausto”, nel Nuovo è Gesù, Agnus Dei, a offrirsi come olocausto, creatore che si fa scannare dalle creature per la loro salvezza: in ogni caso, da Genesi a Giovanni (“Ecco l’agnello di Dio…”) è adempimento in sangue, sequela di macello. In Apocalisse – libro tanto visionario da occludere ogni ragione all’immaginare, rimbombante presenza di “ho visto” in assenza di segni – l’Agnello troneggia ovunque: è la bestia schiantata, vergine, carisma della debolezza, a vincere il furore delle bestie. Il “leone della tribù di Giuda” rivela la propria autenticità nella figura dell’Agnello.
Zurbarán, riferendosi alla profezia di Isaia – “Maltrattato, si lasciò umiliare…/ come agnello condotto al macello” –, non dipinge l’Agnus Dei vittorioso, ma quello prono al massacro. La bestia, su un tavolo grigio, ha le zampe legate, è accasciata, nello splendore del debole – ostia turbata, adatta al banale assassinio di mano d’uomo. Il fondo nero benedice in crudeltà la scena: come se lì, dietro il velame oscuro, si nascondesse un opificio di guardoni, di omicidi, di vili. Lo sguardo dell’Agnello è rassegnato, un Getsemani gli rastrema il muso: il Messia è pura carne, pura bestia, effrazione nel bianco. Nessun rito coglie questa morte, eleggendola; quell’agnello non è olocausto, bensì cibo.
L’Agnus Dei di Zurbarán è un Ecce Homo più candido – e dunque, abietto, senza obiezione umana; verbo senza più verbo, delega al belato. L’agnello è legato: questo è il solo legame con l’uomo. Come è legato – e stravolto, e svenuto, nell’onda della tunica bianca – il San Serapio del 1628, anch’egli agnello reso al macello della storia. Secondo la leggenda, San Serapio era un militare di origine irlandese, nato a Londra, fattosi monaco in Spagna nelle vaste guerre di lì, catturato e squartato dai saraceni nel 1240. Faceva parte dell’Orden de Nuestra Señora de la Merced, fondato al tempo della Reconquista, tra i grandi mecenati di Zurbarán. Secondo la tradizione, i fratelli appartenenti all’ordine pronunciano, tra i voti, quello della redención o de sangre: dare la vita per riscattare i prigionieri cristiani catturati dai musulmani.
Evidentemente, Zurbarán amava il soggetto: il Prado avvisa che “esistono altre cinque versioni” dell’agnello divino, prostrato. Si può amare questo quadro a mani aperte, defunti dal giusto, dal gusto, dal giudizio, dando alla schiena la validità di un occhio.