Nichilismo, cinismo, sarcasmo e orgasmo. Basterebbe lo slogan woodyalleniano di Deconstructing Harry a sintetizzare l’essenza dell’opera di Michel Houellebecq, passata invece al fine setaccio dalla sua esegeta, Agathe Novak-Lechevalier, che da anni si occupa dell’autore che rifugge la definizione di nuovo profeta d’Occidente e al quale ha di recente dedicato la cura di due volumi, editi da Flammarion.
Si tratta di Houellebecq, l’art de la consolation, in cui l’accademica di Paris Nanterre si propone di decostruire l’immagine di scrittore “deprimista” – neologismo coniato da Le Figaro littéraire – esaltando invece il movimento di contrasto alla scomparsa delle relazioni umane e la tensione costante dei suoi scritti verso un ideale perduto, senza limitarsi a collocarli nella tradizione realista. E di Misère de l’homme sans Dieu. Michel Houellebecq et la question de la foi, dove si muove sull’orizzonte religioso dei suoi lavori, sviscerandone l’intreccio costante che lega letteratura e religione, intesi come due spazi di resistenza di fronte alla perdita di senso che affligge il mondo contemporaneo.
Per un’overdose di versi houellebecquiani, Gallimard ha invece appena pubblicato, nella collana Écoutez lire, la raccolta Configuration du dernier rivage / Renaissance, due ore e mezza di vorticosa poesia, letta dall’attore Jacques Bonaffé, da ascoltare preferibilmente sui binari desolati del metrò o fra le corsie di un supermercato, affollate di deprecabile materia umana.
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Scienziato di formazione e positivista per convinzione, Houellebecq sembra aver creduto per un attimo che la scienza possa sostituire le religioni tradizionali e tutto il suo lavoro è ossessionato da tale riflessione, ereditata da Auguste Comte, relativa alla religione come unico collante possibile del corpo sociale. E se la letteratura, proponendosi di raggiungere una forma di verità, permettesse di accedere a una certa trascendenza?
A fornire una risposta è direttamente MH, in un’intervista riportata nell’ultimo volume citato (e già apparsa in Interventions 2020, Flammarion), realizzata dalla stessa Novak-Lechevalier e inedita in Italia, di cui si riportano in tal sede i passaggi principali. (Fabrizia Sabbatini)
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Oggi si parla continuamente di “ritorno della religione”: cosa ne pensa di tale espressione, lei la userebbe?
Sì; e direi anche ovviamente. Ricordo che quando ho lasciato la Francia, alla fine degli anni ’90, il conduttore radiofonico più popolare tra i giovani, Maurice, trasmetteva molto spesso dei programmi sul problema delle banlieues, da cui proveniva lui stesso. Si può rintracciare tutto su Internet, e se si ascoltano questi programmi, ci si rende conto che si poteva parlare per un’ora di periferie senza mai pronunciare la parola Islam. Sono tornato nel 2010, e non abbiamo più parlato che di questo: è davvero impressionante. Più di recente si è invece avuta la netta percezione di una rinascita del cattolicesimo, cosa del tutto sorprendente, perché il cattolicesimo era davvero dato come morente. Questo fenomeno del ritorno delle religioni è quindi prima di tutto assolutamente imprevedibile. Se qualcuno dice di averlo previsto, sta mentendo: nessuno l’ha previsto. È un fenomeno violento, che a volte si verifica nell’arco di pochi anni, e non credo si possa negarlo. […] Le religioni sono tornate ad essere una grande forza storica.
In quale momento della vita ha iniziato ad interessarsi alla religione? In quali circostanze e sotto quale influenza?
Sono stato cresciuto da persone scristianizzate, ma che lo erano da così tanto tempo da non essere nemmeno più anticlericali – vale a dire che la religione per loro non era più una minaccia: era una specie di strana sopravvivenza. Ciò detto, mi risulta molto difficile spiegare a me stesso perché sono andato al catechismo quando ero bambino. Penso fosse perché vivevo in campagna, ed era l’unica attività per i bambini. Erano altri tempi: non c’era nemmeno la TV, io non ce l’avevo e non ce l’aveva nessuno in paese. Così sono andato al catechismo, e all’epoca ricordo che ero molto interessato a domande metafisiche del tipo: c’è stato qualcuno che ha creato l’universo? Il tempo ha avuto un inizio? Avrà una fine? Ma ho scoperto che al catechismo si parlava molto delle disgrazie del terzo mondo, che era un po’ troppo umanitario: non rispondeva affatto alle mie domande metafisiche. Poi, al liceo, ho frequentato il corso di religione, quando era facoltativo, senza esami, senza alcun interesse scolastico. Nel frattempo avevo scoperto il male, ed ero molto interessato a questa domanda sul male: da dove veniva, perché Dio aveva permesso il male… ma anche lì non si rispondeva davvero alle mie domande: era un po’ una cosa da scout. E poi – l’ho raccontato nei miei libri – ho scoperto Pascal, quasi per caso, a quindici anni. E lì ho avuto un vero shock, uno shock definitivo, perché non avevo mai percepito la potenza della morte e del vuoto espressa in questo modo, e la violenza di Pascal su tali questioni rimane per me impareggiabile in letteratura. Ecco le tre tappe: quindi, sì, il mio interesse per la religione arriva da lontano: risale a quando avevo otto o nove anni.
E adesso? In diverse occasioni durante diverse interviste si è definito ateo, poi, più recentemente, dopo l’uscita di Sottomissione si è definito agnostico… Come definirebbe oggi il suo rapporto personale con la religione?
Si è indebolito, perché ho l’impressione che sia senza speranza: non ci crederò mai, rimarrò sempre nel dubbio… quindi vi ho rinunciato un po’.
Lei ha parlato più volte di tentativi di conversione: come li ha immaginati?
La conversione è come una rivelazione. Infatti, ogni volta che vado a messa, credo; sinceramente e totalmente, ogni volta ho una rivelazione. Ma appena esco, svanisce. È un po’ come con la droga: c’è sempre una fase discendente. Alla fine mi sono detto che sono fatto così e che non posso farci nulla. Quindi di tanto in tanto continuo a provare brividi di fede, ma so che non durerà.
Ha mai pensato a se stesso come a uno scrittore cattolico (cosa che a volte alcuni critici hanno fatto)?
Non solo cattolico, anche ebreo!… (ride). Ma è vero! In Israele, durante un incontro con i lettori, uno si è alzato per dire che dopo aver letto i miei libri aveva deciso di cambiare vita, e che era diventato un rabbino. Sotto l’influsso dei miei libri… Così funziona anche con gli ebrei! In effetti scrivo di nichilismo (nichilismo nel senso di Nietzsche), non c’è dubbio: sono lo scrittore di un’epoca nichilista, e della sofferenza legata al nichilismo. Si può quindi immaginare che le persone, leggendomi, facciano con orrore un passo indietro e si gettino in una qualsiasi fede… per sfuggire a questo nichilismo così brillantemente descritto, se posso permettermi. Quindi sì: sono cattolico nel senso che esprimo l’orrore del mondo senza Dio… ma solo in tal senso.
Quanto a Sottomissione, ha detto di aver prima immaginato un romanzo dedicato alla conversione al cattolicesimo, poi alla fine ha deciso di farne un romanzo sulla conversione all’Islam: può spiegare cosa ha provocato questa variazione?
Sì: è un fallimento personale alla conversione, un fallimento davanti alla Vergine Nera di Rocamadour. Ed è anche legato a Huysmans, che gioca un ruolo importante nel libro. Perché per Huysmans – quello che sto per dire sembrerà difficile da credere – la bellezza estetica è davvero un motivo di fede; è anche l’unico per lui, a dire il vero: crede perché è bello. Ma perché funzioni, perché la bellezza produca fede, bisogna avere a che fare con esteti veri, molto più di me: neanche la Madonna Nera di Rocamadour, che è splendida – sono numerose le belle statue religiose, ma quello è davvero uno dei grandi successi della scultura occidentale – ha funzionato con me. […]
Perché, quindi, il passaggio all’Islam? E come definirebbe la rappresentazione dell’Islam che ha dato nel romanzo?
Non si può davvero affermare che vi sia una rappresentazione dell’Islam in Sottomissione: è questa la cosa terribile del libro, la maggior parte dei personaggi in realtà non sono musulmani. Sono musulmani perché gli fa comodo, perché ne traggono vantaggio o perché soddisfa le loro ambizioni personali. Anche il presidente musulmano, non è certo un uomo devoto: senza che io sappia davvero dire perché, si percepisce che è ambizioso e che usa l’Islam piuttosto che essere un vero musulmano. Quindi, ribadisco: non c’è davvero alcuna rappresentazione dell’Islam in questo libro.
È stato spesso accusato di islamofobia. Vuole rispondere a tale accusa?
In pratica penso di essere ambiguo quanto i miei personaggi. Detto ciò, da quando tutto è iniziato, mi sento in dovere di difendere l’islamofobia, che sia islamofobo o meno. Perché deve far parte delle opinioni che abbiamo il diritto di esprimere… e basta. Attaccare una religione è un diritto. Quindi sì, mi sento mio malgrado obbligato a difendere la libertà di espressione.
Se le nomino alcuni autori o filosofi che cita spesso su questioni relative alla religione, mi direbbe in che modo l’hanno influenzata? Comincerei volentieri con San Paolo…
Gli devo Restare vivi. L’ho scritto in uno stato di totale inquietudine, molto paolino. San Paolo rimane uno dei migliori autori che io conosca, perché è sfrontato, estremamente irrequieto – senti i nervi a fior di pelle per tutto il tempo, le frasi ti pungono, è magnifico. C’è in lui un misto di protervia e malcontento che è del tutto ineguagliabile. Ed è un grande scrittore per questo semplice motivo: ho l’impressione di vederlo lì, a due metri da me, quando lo leggo. Quindi sì, continuo ad amarlo. Alla fine, è stato forse San Paolo ad avere su di me la maggiore influenza letteraria: è in lui che ho trovato questo lato che a volte si potrebbe definire punk in Restare vivi e in Estensione del dominio della lotta.
In un genere completamente diverso, direbbe che anche Auguste Comte è stato molto importante per lei?
Comte è interessante sotto molteplici aspetti. È colui che esprime nel modo più totale e sistematico il fatto che dopo la Rivoluzione la società ha perso le sue fondamenta e che non avrebbe potuto resistere, a lungo termine, senza religione. Non entrerò nel suo pensiero, perché è piuttosto complicato; diciamo che ho trovato i suoi concetti estremamente convincenti. La sua distinzione, ad esempio, tra un’età biologica e l’età metafisica la cui unica funzione è quella di distruggere, la trovo molto vera: tutto ciò che è accaduto tra l’inizio del protestantesimo e l’inizio della Rivoluzione francese aveva un unico scopo: minare la società precedente. Ci è riuscito, l’intera società è finita in rovina, senza più alcuna base, o con basi relativamente insignificanti come il patriottismo – il che dopotutto non è grave. Comte afferma tutto ciò con vera forza intellettuale: è un autore che ammiro oltremisura. Inoltre, cerca di gettare le basi di una religione futura, compatibile con il progresso della scienza, e anche in tal caso mi ha fortemente influenzato, tant’è che è l’idea di base de Le Particelle Elementari. Il fatto che la scienza sia diventata rigorosamente positivista, che non vi sia alcuna entità metafisica dietro le leggi, di fatto riapre la possibilità di un fondamento religioso. Quindi sì, Comte è uno degli autori che mi hanno maggiormente influenzato.
E Chesterton, più volte citato ne La carta e il territorio?
Per leggere Comte per piacere, come è nel mio caso, bisogna comunque essere un po’ pervertiti: ha tutti i tratti di una scrittura da maniaco. Leggere Chesterton, al contrario, è delizioso: è ironico, divertente, brillante, ha anche delle idee piuttosto profonde. Ad esempio, con riferimento a Comte, sottolinea come l’idea più affascinante del positivismo sia quella di aver creato un calendario; ed è vero che il fatto di strutturare l’anno, di avere un tempo non più neutro ma dove ogni momento ha un senso, è fondamentale – perché la religione, strutturando la vita, aiuta a vivere. Chesterton è anche l’autore di un pensiero che non si può dire abbia avuto molto successo – il che è un peccato: un tentativo di organizzazione cristiana del mondo economico. Merita di essere riletto: è contro le grandi imprese, contro l’industrializzazione, è interessante. Chesterton è apertamente cattolico, e riesce a rendere piacevole il cattolicesimo perché insiste molto sull’idea che sia una religione dell’incarnazione: siamo fatti di carne e secondo lui è tutto sommato una buona cosa.
Nietzsche e Schopenhauer? Cosa direbbe al riguardo?
Nietzsche… se ci atteniamo all’argomento della nostra intervista, la sua opposizione frontale a Cristo non mi appartiene.
È questa la base della sua opposizione a Nietzsche?
No, perché non sono mai stato molto credente: la mia opposizione è dovuta alla sua confutazione della morale e della pietà. Ma sì: Nietzsche rivaleggia con Cristo, incolpa il suo rivale vittorioso – si tratta di una follia molto diffusa in Occidente… […] Schopenhauer è diverso, è apertamente ateo anche lui, ma si tratta di un ateismo più intellettuale – cerca anche, alla fine, di riconquistare i cattolici, cosa che trovo di un simpatico opportunismo: li richiama a sé, mentre per tutta la vita ha insultato i monoteismi nei termini più violenti. Ma si è messo in testa alla fine della sua vita che il cattolicesimo non sia proprio un monoteismo – il che non è del tutto errato: la Vergine, i santi, rappresentano delle divinità intermedie che attenuano la brutalità del rapporto che esiste nell’ebraismo e nel protestantesimo.
C’è qualche autore che ho dimenticato che pensa sia importante?
Chateaubriand, perché Genio del Cristianesimo è un libro stupefacente. Fin dall’inizio è stato un grande successo – e pare che le gentildonne parigine si dicessero tra loro: «Ah, è quindi questo il cristianesimo? Ma è delizioso!» (ride). Chateaubriand è riuscito a rendere alla moda il cristianesimo, mentre è una gran fatica. Il libro è straordinario: il suo stile funziona benissimo; la descrizione della morte del cristiano come lo spettacolo più maestoso che possa esserci sulla terra, vale la conversione; e la sua analisi della stessa situazione trattata nella Bibbia e da Omero, per esempio, è di grande raffinatezza… […]
All’inizio del XIX secolo alcuni poeti come Hugo o Lamartine, per esempio, si definivano maghi laici, profeti. La letteratura dovrebbe, secondo lei, assumere per certi aspetti alcune funzioni che erano tipiche della religione?
Si tratta principalmente di Hugo… Un po’ anche di Lamartine, sì, ma non è mai arrivato al punto da pensare che Shakespeare stesse parlando a lui. Non si considerava tanto un profeta quanto una guida politica, il che è abbastanza buffo. In ogni caso sono meno megalomane di loro: non mi vedo come un profeta laico. Ogni volta che mi dicono che sono un profeta, nego, faccio notare quante volte ho sbagliato nelle mie profezie… No, no, me la gioco piuttosto male sul fronte profeta.
In un’intervista ha affermato che la poesia è “vicina al divino”. Direbbe che la poesia mantiene stretti legami con il linguaggio religioso?
Certamente sì. C’è un forte punto in comune, la poesia è priva di contraddittorio: è un discorso assoluto la cui ambizione è saldare frasi senza possibilità di negazione. Un altro punto in comune è che la totale comprensione non è fondamentale: si può non comprendere appieno i testi religiosi, così come non è necessario comprendere tutto quando si ascolta una poesia. E ci sono anche testi religiosi che hanno un vero valore poetico: certi salmi, ad esempio. Quindi, sì, c’è una forte connessione.
In Piattaforma troviamo la seguente frase: “A cosa paragoniamo Dio? Prima di tutto, ovviamente, alla figa di una donna”. Nella sua opera lei ha associato molto spesso sesso e religione: si tratta di pura provocazione?
No. È un punto di vista maschile, ma non è una provocazione. Va ricordato che le rappresentazioni più antiche venerate da questa o quella tribù primitiva erano organi sessuali maschili o femminili. E anche se parliamo di tempi remoti, non credo che il fatto che l’umanità si evolva cancelli gli stati precedenti: questi stati rimangono lì, sottotraccia. Sono ricoperti da molti substrati di civiltà, ma restano potenzialmente attivi. Quindi non si tratta di una provocazione: bisogna prenderla sul serio.
In un’intervista sostiene che la storia di Cristo la ha “sempre affascinata, soprattutto il suo sacrificio pianificato e assunto, il fatto che si è caricato i peccati del mondo”. E in Nemici pubblici, sostiene che il suo destino abbia preso una svolta cristica. Cosa la spinge ad affermare ciò? È questo il sacrificio che deve compiere lo scrittore?
Sì. È un aspetto dell’attività: non possiamo certo chiamarlo lavoro. Diciamo che, così come io lo concepisco, scrivere implica il caricarsi su di sé il negativo, tutto il negativo del mondo, e dipingerlo in modo tale che il lettore possa sentirsi sollevato dall’aver visto espressa questa parte negativa. L’autore, che si assume la responsabilità di esprimerla, corre ovviamente il rischio nello stesso tempo di essere assimilato a questa parte negativa del mondo. Questo è ciò che rende a volte quella di scrivere un’attività complicata: il fatto di assumere su di sé tutto il negativo. E in effetti ha a che fare con Cristo che prende su di sé i peccati dell’umanità. Quindi sì, è un dato di fatto, c’è una somiglianza. È una buona conclusione, giusto?