Sembra che il flagello epidemiologico che oggi si abbatte sul mondo rimbombi di echi biblici, di catastrofi apocalittiche. Pare che il temuto virus asiatico abbia cominciato a suonare le Trombe del Giudizio in attesa dell’Armageddon; che la fine del mondo, insomma, si preannunci con uno starnuto e qualche linea di febbre.
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La deludente scoperta di una sua possibile estinzione ha reso l’umanità ancora più goffa ed esilarante, diciamolo pure. Una febbre panica si è impossessata dell’umanità producendo il lamento scomposto delle prefiche, il pianto chiassoso, il lessus, come lo chiamavano gli antichi. L’uomo, che con la tecnica credeva di aver domato il destino e la morte, improvvisamente, come punto da un tafano, si è accorto della catastrofe che potrebbe travolgerlo da un momento all’altro. Eppure, se quest’epoca fosse al tramonto come quello vaticinato da Spengler all’Occidente, avremmo già visto sui muri le nostre ombre lunghe e traballanti. Una luce sinistra e spettrale avrebbe illuminato i nostri atti insulsi, le nostre bassezze, i volti scolpiti dal terrore. Invece ho il sospetto che si dovrà attendere ancora molto prima di accendere i ceri a questo colossale ammasso di macerie che è il mondo, uno sputo di terra a cui si dedicano cure da cerusico nelle pause tra l’aperitivo e due strisce di coca.
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Che l’uomo abbia del tutto dimenticato la sua finitudine e un giorno si sia messo a pensare all’immortalità dà conto di quanto mostruosa sia la natura di questo essere trionfante di miseria. Poi, sul fatto che talvolta abbia anche potuto parlare o scrivere di eternità, sorvolo con spavalderia da guappo. «L’uomo non vuole affatto sottrarsi a chissà quali catene, vuole rimanere, vuole vivere» (La stella della redenzione), ci ricorda Franz Rosenzweig. Già, vivere. È tutta qui la sua mediocre aspirazione. L’uomo si attacca alla fragile cortina della vita come il toxoplasma gondii ai visceri dell’animale che lo ospita. Si nutre di cosucce, insomma. (Senza considerare che il toxoplasma gondii ha maggiori probabilità di farla franca e di sopravvivergli). Nei confronti dell’eternità già il vecchio Kant – che quando voleva sapeva farsi capire – ci aveva messi in guardia: «una simile vita [eterna], se ancora la si può chiamare vita, apparirà come un annientamento» (La fine di tutte le cose). E credo che finalmente gli si possa dare ragione.
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Diciamolo una volta per tutte, la nuova epidemia virale non preannuncia la fine del mondo ma la crescente incapacità dell’uomo di porvi rimedio. Più che una minaccia, essa è un monito, un avvertimento, un memento mori. Dice che a questa ne seguiranno altre alle quali saremo sempre più esposti, altri flagelli nei confronti dei quali l’uomo potrà opporre soltanto lacrime e stridore di denti. Ma intanto, con il panico per la supposta ecpirosi si diffondono anche nuovi precetti morali. Uno su tutti brilla di stupefacente bellezza: la distanza tra gli individui. Poiché il contagio (cum–tagere) è pur sempre un toccare, esso impone quella cautelare misura di spanne, centimetri di presunta salvezza che separano me dall’altro, me dal mio potenziale aggressore virale. E sebbene l’efficacia di salubrità dei novi mores abbia le stesse probabilità che ebbero le parole di Abramo nel tentativo di convincere Yahweh a non ridurre in cenere Sodoma, l’uomo li osserva con la tenacia di uno zelota proprio perché l’altro, il prossimo, non lo si può sopprimere. Insomma, la violenza è tenuta a bada soltanto dalle ultime speranze riposte nella scienza e da ciò che essa promette in termini di guarigione. Poiché alla scienza, dopotutto, abbiamo affidato i nostri bassi istinti da quando Dio ha smesso di essere il nostro vaccino.
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A questo punto vale la pena di rileggere quelle pagine del Il disagio della civiltà di Freud per rendersi conto di quanto l’idea di ‘salvezza scientifica’ sia tutto ciò che abbiamo ereditato e che oggi ci rimane. Con la sua superbia asburgica Freud prima dispensa l’antidoto contro l’infelicità procurata dai rapporti umani individuato nell’isolamento volontario e nel tenersi lontano dagli altri, poi dà l’affondo finale: «C’è veramente un’altra via, migliore, che consiste nel passare […] ad aggredire la natura, con l’aiuto della tecnica guidata dalla scienza, e ad assoggettarla alla volontà dell’uomo». Ma questo è il punto. La natura non può più essere aggredita, le risorse sono all’esaurimento e la volontà dell’uomo è stata anch’essa ceduta interamente al potere smisurato della tecnica. L’uomo ora è solo, è fragile, triste, malato. E non è affatto a disagio, come quello di Freud, per questa o per quell’altra sottrazione di desiderio. L’uomo è infelice e in fondo, come un bambino sepolto nell’oscurità della sua stanza, ha soltanto paura di morire.
Vincenzo Liguori
*In copertina: un particolare dal “Giudizio Universale” di Pieter Paul Rubens, 1614-1617