Il papa donna. Storia lugubre e veritiera della papessa Giovanna
Cultura generale
Nicolò Locatelli
A parlare seriamente, sembra che al seno delle donne si addicano soltanto parole edificanti o sentimenti di pura contemplazione. (Le allusioni lascive e licenziose le lasciamo ai magliari delle suburre o ai frequentatori di postriboli. A questa gentaglia, noi non concediamo il nostro tempo). Nel seno femminile nulla sembra allontanarsi dalla delicata generosità della nutrice o dall’amorevole cura di una madre, niente lascia percepire un nonsoché di sofferenza o di disgusto, un nichelino di disagio o di imbarazzo. In esso pare sia impresso soltanto lo stigma chiaroveggente della prosperità e della progenie che in ogni dove sprizza grazia, accoglienza e maternità.
Sfogliando le Biografie sessuali di Krafft-Ebing, raramente ci si imbatte in atti di voluttà provocati dal seno di una donna. In questa sintesi di casi clinici che il medico trae dalla sua Psychopathia sexualis, si ha l’impressione che l’eccitazione, le perversioni o altre manifestazioni patologiche irrompano nella mente umana perlopiù con la visione o con il contatto di parti del corpo femminile non necessariamente riconducibili al seno (piedi, cosce, fianchi, glutei). Insomma, anche qui il seno è ben lontano dalla livida traccia del peccato e della clinica psichiatrica.
Di madonne tristi e pallide che mostrano il seno nudo è piena l’iconografia artistica, ma queste non sono che repliche edificanti della medesima Virgo Lactans, ossia madri e nutrici del piccolo Cristo che amorevolmente tengono sulle ginocchia. Spetterà al frusto Novecento di conferire all’immagine pittorica di queste pulzelle quel piccolo prurito erotico che mancava alle icone del passato. Ma in realtà, anche in questo caso, si trattava di scandalizzare i perbenisti non più con un seno scoperto o una certa nudità quanto con la postura sfacciata e provocante delle donne che in quei quadri sono raffigurate.
Soltanto la psicanalisi ha riconosciuto al seno quello che l’arte era riuscita appena a tratteggiare. Al seno essa attribuisce addirittura valori morali, – il “seno buono”, il “seno cattivo” (M. Klein) – oppure ne fa un oggetto “parziale”, “transizionale” (D. Winnicot), “mancante o perduto” (J. Lacan), una sineddoche, insomma, qualcosa di avulso da tutto il resto ma che rappresenta proprio quel resto che è al suo posto e allo stesso momento non lo è, simbolico e immaginario insieme, staccato dal corpo femminile del quale è pur sempre parte.
Nella storia della filosofia il seno femminile compare en passant. Quando vi fa capolino, come in Le parti degli animali di Aristotele, è perché, come al solito, il richiamo è alla sua funzione mammaria. Nietzsche, che con molta probabilità in vita sua di seni ne vide pochi, in Così parlò Zarathustra lascia un aforisma inutile e innocuo che sul seno dice poco o niente. Per darmi ragione si legga quello che è scritto in Delle tavole vecchie e nuove. Chi invece dal seno di una donna ricavò un inquietante turbamento, fu il filosofo Raimondo Lullo. Del sentimento di dolore di quest’infelice ci informa Schopenhauer con l’aneddoto che riportò nel 68esimo capitolo di Il mondo come volontà e rappresentazione e, successivamente, il suo arcievangelista Julius Frauenständt nei famosi Gespräche (Colloqui). Schopenhauer racconta che Lullo si era invaghito di una donna alla quale aveva a lungo fatto la corte. Ma quando si trovò con lei molto vicino al compimento dei suoi desideri, ella, aprendosi il corpetto che proteggeva le sue muliebri grazie, “gli mostrò il seno divorato nel modo più orribile dal cancro”. Da quel momento in poi, “come se avesse visto l’inferno”, dice Schopenhauer, Lullo si convertì, lasciò la corte del re di Maiorca e si ritirò in penitenza nel deserto.
Un seno atelico, senza capezzolo (la medicina con sprezzante cinismo lo definisce “senza scopo”), fu motivo di turbamento anche per Jean-Jacques Rousseau. Ma in lui quella visione non provocò nessuna conversione. Zulieta, la cortigiana con la quale il debosciato si stava intrattenendo, non voleva perder tempo con inutili manfrine e così cominciò a far cadere, a uno a uno, i veli della pudicizia. Tuttavia, nell’istante in cui anch’egli, come Lullo, fu sul punto di raggiungere l’estasi, la mammella “cieca” di lei lo convinse di non avere tra le braccia la più incantevole delle creature ma addirittura “[…] una specie di mostro, il rifiuto della natura, degli uomini e dell’amore” (J.-J. Rousseau, Confessioni, libro VII, 2). Come si sa, Rousseau era conosciuto anche per queste reazioni eclatanti e decisamente infantili. Però, l’aneddoto che egli volle che conoscessimo nei più trucidi dettagli purtroppo non ha nulla di filosofico e si perde soltanto nella tristezza e nell’umiliazione della donna che con ripicca e sdegno, finalmente, suggerì al suo Zanetto di lasciar perdere le donne e di dedicarsi alla matematica.
In altri casi, invece, la scoperta e l’importanza del seno femminile sono arrivate con tardiva e secondaria consapevolezza anche in filosofi insospettabili e scafati. Il 4 settembre 1968, Paul Feyerabend scrive all’amico Imre Lakatos una lettera in cui ammette questo ritardo d’interesse nei confronti del seno, ma soltanto perché prima aveva dovuto soddisfare la sua “fame di gambe” (leg appetite). “Lasciami aggiungere – scrive Feyerabend – che avendo preso coscienza dell’importanza delle tette (visto che la mia fame di gambe è soddisfatta da Liz) non criticherò più Lynn (soprattutto dopo che mi ha dato del “bello” nella sua ultima lettera) […]”. La risposta di Lakatos, invece, mette la gravità di una pietra tombale sulla tardiva consapevolezza dell’amico e l’“importanza delle tette” di Feyerabend, per dirla così, viene sepolta completamente. Se da Lakatos egli sperava un elogio, una ripresa del tema o il tentativo di un panegirico filosofico del seno femminile, ciò che invece ricevette fu soltanto la catastrofica e definitiva estinzione di ogni entusiasmo. La guerra, o meglio l’invasione russa della Cecoslovacchia, generava apprensione nel filosofo ungherese e, come scrisse a Feyerabend qualche giorno dopo (28 settembre 1968), gli impedivano “di pensare all’incommensurabilità e perfino alle donne”. Amen. Argomento chiuso.
Theodor Wiesengrund Adorno fustigò la modernità e i suoi miti illuministici con spocchia e cipiglio accademico. Eppure non disdegnò mai di partecipare alle feste schiamazzanti dei suoi studenti o la compiaciuta e talvolta esagerata galanteria nei confronti di giovani e belle studentesse. Ma poi, un giorno, durante un’accesa contestazione studentesca, tre di loro a seno nudo gli ostacolarono la strada per impedirgli di recarsi in cattedra e di parlare. Le cronache non hanno riportato quale fu la sua reazione, ma qualche maligno ha detto che pochi mesi dopo, il professore riposò per sempre… nel seno di Abramo.
Fedele al suo pensiero filosofico dell’Essere Singolare Plurale, ossia a una concezione dell’Essere non isolato nella sua singolarità ma concepito in relazione (plurale) con il mondo, per Jean-Luc Nancy una donna non ha un seno ma i seni. Parlando di seni, pluralizzando quel meraviglioso unicum anatomico femminile, egli fa sì che esso si presenti inevitabilmente scisso, bino e, almeno lui, prova a dire e a scrivere sul seno – pardon, sui seni – qualcosa di filosofico. In La nascita dei seni, ciò che impressiona e stupisce Nancy è la loro epifania, lo sbocciare come fiori e, infine, la crescita che egli paragona a un sollevamento, a un’elevazione, a un’ascesi. In più, una volta maturi, tra questi seni si produce, solcandoli, quella fenditura – “lo scavo del corpetto”,dice il filosofo – che è ciò che richiama l’attenzione dalle scollature dei vestiti e che dei seni rappresenta quell’interiorità esposta, l’apertura infinita e accogliente del sinus, del golfo. Ma poi, perlopiù, l’opera si risolve in un brillante sfoggio di erudizione letteraria che sul seno, – pardon, sui seni, – costruisce fantasmagoriche variazioni sul tema che non vanno lontano e non approdano da nessuna parte. Insomma, anche questa volta la filosofia delude e perde l’ennesima occasione di dire del seno (o dei seni) quello che da questa dannata disciplina ci si aspetterebbe. La fondazione di un’ontologia o di una fenomenologia del seno è ancora molto di là da venire. Del resto, è lo stesso Nancy a ricordarcelo:
“Tutto [sui seni] è già detto, ovviamente, e si arriva troppo tardi, o troppo presto”.
Vincenzo Liguori
*In copertina: la Madonna di Jean Fouquet, 1450-1455