17 Marzo 2020

Nuovo Vocabolario del Virus: “ubbidire”, “coercizione”. Alla base di tutto, l’utopia cinese stabilita nel terribile “Libro del Signore di Shang”

Ubbidire, coercizione: Ubbidire è un verbo importante, significa adempiere la parola che mi è stata detta. L’ubbidienza richiede l’ascolto – udienza – e la fede (ho fiducia nel giusto che mi dici); non è la mera risposta a un ordine impartito. La tua parola per attuarsi ha bisogno di me: l’ubbidienza sigilla un legame. Eppure, ubbidire stabilisce un non equivocabile sistema di potere: una parola vale di per sé, non chiede dialogo ma atto. Mi è detto di fare una cosa, non di discutere se quella cosa sia più o meno buona. Per questo, l’ubbidienza si porge a un capo carismatico (che di me riassuma tutto e di più) o a un’idea, un valore, una necessità più vasta di chi ubbidisce e di chi pretende ubbidienza. Perché dovrei ubbidire ai limiti imposti per decreto dal Presidente del Consiglio dei Ministri? Egli non ha alcun carisma in grado di sopraffarmi. Però, credo che il sacrificio per la patria martoriata o il culto della salvaguardia della vita siano ragioni sufficienti per ubbidire.

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Gesù pone un problema. “Non crediate che sia venuto ad abrogare la legge o i profeti, non sono venuto ad abrogare ma a compiere” (Mt 5, 17), dice, eppure rompe le norme, comprese le restrizioni legate alla sacralità del sabato. Gesù ubbidisce alla Legge disubbidendo al legalismo, ‘compie’ la Legge disubbidendo alle norme. Trascende la legge, svilita in norma, mera ripetizione del consueto, per esaltarla.

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In garanzia d’ubbidienza, s’invoca la coercizione, misure più restrittive, coercitive, appunto. La coercizione è l’al di là dell’ubbidienza: visto che non ubbidisci – cioè, non mi ascolti – ti costringo a ubbidire. Coercizione significa, letteralmente, “l’obbligare altri a fare o non fare una cosa, usando la forza o minacciando d’usarla; coazione, costrizione, limitazione della libera volontà”. Il “commissario all’emergenza Coronavirus” della Regione Emilia-Romagna si è espresso ieri in questo modo: “rischiamo che questo servizio sanitario non riesca a fare fronte alle esigenze delle prossime settimane se voi non rimanete a casa vostra. E se non volete rimanere, credo che saremo costretti a prendere provvedimenti ancora più coercitivi. Non è più il tempo delle passeggiate di ‘cazzeggio’ perché nei prossimi 10 giorni ci stiamo giocando il futuro della salute di questo Paese”.

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Ambire a provvedimenti più coercitivi – azione che potrebbe avere, come effetto contrario, la disubbidienza di massa, perché l’uomo, per sua natura, costretto, esplode, anche a rischio di morte – mi manda a un libro meraviglioso e terribile. È stato forgiato in Cina – guarda un po’ – nel IV secolo prima di Cristo, da uno stratega, politico e militare passato al vaglio della dannazione (“parlare di lui insozza la bocca e la lingua”, scriverà il poeta Su Tung-p’o un millennio dopo). Eppure, pare che grazie ai precetti inclusi nel Libro del Signore di Shang il piccolo stato di Ch’in riuscì a primeggiare tra gli altri, con proficuo esercizio di ferocia.

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Il fatidico Signore di Shang è figura di spicco della corrente filosofica dei legisti che “nella loro teoria politica dissociano potere e moralità” e ritengono l’esercizio del potere “non più legato al valore personale del sovrano ma all’efficacia delle istituzioni, che fanno rispettare la legge e la posizione di forza” (Anne Cheng, Storia del pensiero cinese, 2000). L’antropologia di legisti è riassunta da un aforisma del Signore di Shang: “è nella natura degli uomini inseguire il profitto, così come l’acqua segue la linea di maggior pendenza; sono gli interessi egoistici a muovere gli uomini”.

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 La regola del Signore di Shang per rendere efficace uno Stato è rapace: i sudditi devono ubbidire – anzi, inchinarsi senza incunearsi nell’ascolto –, ogni cittadino deve “fare la sua parte” (cioè, fare ciò che gli è imposto), la cultura è bandita (“Se lo studio si diffonde nel volgo la gente si darà ai dibattiti, alle parole altisonanti e alle discussioni fondate su false premesse… così il popolo si allontanerà dal sovrano e vi saranno folle di sudditi sleali”), la tradizione sterminata (“Aver cura della vecchiaia, vivere alle spalle degli altri, bellezza, amore, ambizione e condotta virtuosa: se questi sei parassiti riescono a far presa vi sarà smembramento”), in virtù di uno stato permanente di guerra, raffinando la dinamica della punizione (“Se si rendono pesanti le pene e lievi le ricompense il sovrano ama il suo popolo ed esso è disposto a morire per lui”).

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L’ubbidienza – con premio d’abnegazione – si ottiene assegnando pene severe a lievi mancanze: “se le trasgressioni lievi saranno considerate gravi, non ci saranno più punizioni, gli affari avranno successo”. Il Signore di Shang costruisce un sistema di polizia – le assi sono: esercito e agricoltura; armi di difesa e cibo per sfamarsi – consapevole che solo sotto minaccia è possibile vincere l’individuo. “Se lo Stato richiede poco dal popolo, il popolo sfuggirà anche al poco che gli si richiede”; “Se governi con punizioni, il popolo avrà paura; avendo paura, non commetterà scelleratezze e, non essendovi scelleratezze, la gente sarà felice per ciò di cui gode”.

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Lo Stato coercitivo è lecito, però, paradosso utile all’oggi, soltanto se il governo si avvicina uomini autorevoli, meritevoli. “I re intelligenti stimano importante ricompensare con titoli solo gli uomini di vero merito… Se ottenere titoli è facile, la gente non apprezzerà né i titoli massimi né gli altri; se emolumenti e ricompense non vengono ottenuti attraverso una porta ben precisa, la gente non si impegnerà fino alla morte per avere rango”.

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“La porta che conduce alle ricchezze e all’onore deve consistere nella guerra e in nient’altro”.

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Il Signore di Shang, nella sua truce utopia, è consapevole che l’individuo può non piegarsi. Può intendere la coercizione come prova. L’ubbidienza come pratica interiore, come attesa. “Chiunque faccia assegnamento sull’impero viene rifiutato dall’impero; chiunque faccia assegnamento su se stesso vince l’impero. Colui che vince l’impero è uno che considera suo primo dovere vincere se stesso; colui che ha successo nel conquistare un forte nemico è uno che considera suo primo dovere conquistare se stesso”. Che questo sia uno stato di guerra, è perfino inutile ribadirlo: a un nemico invisibile ne fanno seguito altri. (d.b.)

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