Forse si scrive impetrando perdono, forse si scrive, con una spugna di ferro in mano, per annientare se stessi – forse non si testimonia una cosa per ricordarsene, ma per disfarsi di essa.
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Lev Sestov è tra i pensatori di genio del secolo scorso: russo, a Parigi dopo la Rivoluzione, ha scritto i testi più illuminati sull’opera di Fëdor Dostoevskij (La lotta contro le evidenze) e di Lev Tolstoj (In sede di giudizio finale). Entrambi i saggi sono raccolti in un libro segreto e bellissimo, Sulla bilancia di Giobbe. Peregrinazioni attraverso le anime, edito in Italia da Adelphi. Dal saggio su Tolstoj ho estrapolato il brano che leggete in calce, una lettera di Nikolaj Strachov, devoto studioso, amico del conte Lev e intimo di Fëdor.
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Che rapporto c’è tra l’autore e la sua opera? Lo scrittore che scrive un capolavoro può essere un uomo mediocre, vizioso, malvagio: perché questa possibilità ci sconvolge? Scrivere non rende migliore lo scrittore – eventualmente aiuta il lettore a diventare un uomo migliore, cioè più consapevole. Lo scrittore, in qualche modo, sacrifica se stesso, si esaurisce, si smonta e cade, per l’opera. Non ha salvagenti di compassione per sé.
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Strachov ci dice che Dostoevskij, lo scrittore de I fratelli Karamazov, uno dei grandi libri dell’umanità, era violento, corrotto, schifoso. Dostoevskij abusa di una ragazzina nel cesso, e se ne vanta. La crudeltà di Dostoevskij è piccola, meschina, vile: come se, sistematicamente, lo scrittore russo volesse dare agli altri la peggiore impressione di sé. Sembra, proprio, una appropriata disciplina mistica – una discesa nelle tenebre. Voglio che gli uomini mi vengano a odiare, voglio perdere ogni rispetto.
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Come Strachov, che, schifato da Dostoevskij, dovendo scriverne la biografia, cela i vizi dell’amico per garantirgli una fama di ‘santo’, anche io percorro una voluttà romantica. Dostoevskij, forse, era semplicemente uno stronzo. Facciamo fatica ad accettare che un essere repellente abbia scritto romanzi tanto belli come L’idiota o I demoni. Vorremmo, forse, che tutto fosse come in un film hollywoodiano, dove l’eroe vince e bacia la bella, ma non lo vedi mica al cesso a bestemmiare. Vorremmo la divina sintesi: chi è nel bene è bello e dice il vero. Ma la vita è ciò che è sbilanciato.
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Non ci sono regole in letteratura: un ottimo libro può essere scritto dall’uomo più buono della terra (pare esserlo stato, ad esempio, Anton Cechov) come dal più crudele. No, dal più crudele probabilmente no. Chi è davvero crudele esaurisce la sua azione nel mondo pieno della sua crudeltà – non sa creare, corrompe. La parola crudele è sbagliata – appropriata è la parola meschino. Un uomo meschino vede il cinismo dietro ogni gesto, vede il sopruso alla foce di ogni azione: non usa la malvagità come arma, ma costella la sua vita di piccole cattiverie per capire le reazioni dei suoi simili. Questo sguardo è già letteratura.
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Bastano le buone intenzioni – quelle di D. – per santificare una vita? Ovviamente no. Le buone idee e le buone intenzioni, inattuate, sono un surplus di viltà.
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In fondo, i romanzi di Dostoevskij rispecchiano le nostre quotidiane meschinità: siamo come lui, deboli, fallimentari, mediocri. Se il conte Tolstoj vince la meschinità – di cui era preda pure lui, come tutti – creando personaggi bianchi, eroici nel bene come nell’inquietudine, Dostoevskij scava nei luoghi indicibili e indegni, ci morde il fegato.
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Non penso, come dice Strachov – proponendo una soluzione seducente ma semplice – che i libri di Dostoevskij “sono un’unica autogiustificazione”, l’esito di un micidiale tête-à-tête con le proprie perversioni, eppure mi sorprende sempre leggere questa frase, che ricorre reiteratamente nell’opera di D., “Peccando, ogni uomo pecca contro tutti gli altri e ogni uomo è in qualche modo colpevole dei peccati altrui. Non esiste peccato individuale”.
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Chi siamo noi per pretendere la rettitudine? Bisogna partire dall’esplorazione maniacale delle proprie ossessioni, delle proprie bassezze per scrivere qualcosa. Bisogna partire dagli ultimi, da ciò che è ultimativo, dall’ultimo grado dell’umanità, dove ci disgusta.
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Per questo, gli applausi sono deleteri: quando uno scrittore pensa di essere davvero uno scrittore e la sua fame di fama è soddisfatta, allora non penetra la vita, sale sul palco a fare la recita e la paternale.
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A volte penso a Dostoevskij con la faccia di un cane: scartoccia il corpo di un uomo, indossa il suo costato, si scuote dentro il cadavere con moti violenti, grotteschi, come un pesce. A volte Dostoevskij abbaia davanti alla porta delle nostre case, spacca la finestra della cucina e divora tutto, spacca gli scaffali, morde ogni spiraglio di vita, ci costringe alla fuga. (d.b.)
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Esiste in letteratura l’abitudine saldamente ancorata di mostrare ai lettori soltanto la facciata dell’esistenza dei grandi uomini. Le basse verità non ci sono di alcuna utilità: che cosa ce ne faremmo? Siamo convinti che le verità ci siano necessarie non in se stesse, ma in quanto possano essere utili a una qualche ‘azione’. Era questo il punto di vista di Nikolaj Strachov quando scriveva la biografia di Dostoevskij, come confessa lui stesso in una lettera a Lev Tolstoj pubblicata nel 1913: “Mentre scrivevo”, racconta, “dovevo lottare di continuo contro un sentimento di disgusto che si levava dentro di me, e cercavo di soffocare i miei cattivi pensieri. Aiutatemi a liberarmene. Io non posso considerare Dostoevskij né buono né felice. Era cattivo, invidioso, vizioso. Per tutta la vita fu preda di passioni che lo avrebbero reso ridicolo e spregevole, se non fosse stato nello stesso tempo così intelligente e così perfido. Mi sono ricordato vivamente di questo suo modo di essere in occasione della stesura della sua biografia. In Svizzera, davanti a me, trattava così male il suo domestico che questi se ne offese e gli disse: ‘Ma sono un uomo anch’io!’. Ricordo come mi colpì questa frase, che rispecchiava le idee della libera Svizzera sui diritti dell’uomo, ed era diretta a colui che aveva sempre fatto professione di umanità. Scene del genere si ripetevano continuamente, non poteva frenare la sua cattiveria. Molte volte io rispondevo col silenzio ai suoi affronti, fatti proprio alla maniera delle donne, d’improvviso e indirettamente, ma due o tre volte mi capitò di rispondergli per le rime. Naturalmente, sulla gente comune la vinceva sempre lui e il peggio è che ne provava piacere e che non si pentiva mai sino in fondo delle sue perfidie. Ne era attirato e se ne vantava. Viskovatov (professore all’università di Jur’ev) mi raccontò che si vantava di essersi… approfittato di una ragazzina, nel bagno, dove gli era stata portata dalla governante. Fra i suoi personaggi quelli che gli assomigliano di più sono l’eroe delle Memorie del sottosuolo, Svidrigajlov e Stavrogin. Katkov si rifiutò di pubblicare una delle scene di Stavrogin (lo stupro, ecc.), ma Dostoevskij la lesse, qui, a molta gente. E, nonostante una natura simile, era incline a un sentimentalismo dolciastro, a sogni umanitari elevati, e sono appunto queste fantasticherie la sua mura letteraria, queste sue tendenze a rendercelo caro. Insomma, tutti i suoi romanzi sono un’unica autogiustificazione, dimostrano che nell’uomo le perfidie più orrende possono benissimo coesistere con la nobiltà dei sentimenti. Ecco un piccolo commento alla mia biografia: avrei dovuto descrivere anche questo lato del carattere di Dostoevskij – mi ricordo di casi numerosi, ancora più tipici di quelli che ho citato – e il mio racconto sarebbe stato più veridico. Ma perisca pure questa verità, continuiamo a mostrare il lato buono dell’esistenza, come facciamo sempre e in ogni occasione…”.
Lev Sestov