Milano compare la prima volta a pagina 20: «Quindi cercavo l’amore. Nelle strade di Milano». Come se andasse a un pic nic, l’autrice ci mette la poesia e la città se la fa andar bene. Insomma un’investitura, poiché le librerie sono stracolme di romanzi che hanno cercato (con disastri di varia entità) di leggerle l’anima, ma Milano si è concessa davvero a pochissimi. Su tutti Un amore di Dino Buzzati, tra i dieci migliori romanzi del Novecento. E poi Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi. Senza naturalmente trascurare l’odiatissimo (e amatissimo) Promessi Sposi, ma più modestamente anche pezzi, testi e monologhi di Beppe Viola, Enzo Jannacci e Paolo Rossi.
Milano compare in questo romanzo come una Madonna, quella là in alto. La Sua. E non lo fa con tutti, come detto (si pensi ad esempio al recente Fedeltà di Marco Missiroli) sembra scegliere i suoi amanti. Però la sensazione che abbia scelto Veronica Tomassini per farsi raccontare ne L’inganno (La Nave di Teseo, 2022) è davvero fortissima, al punto che sembra che la città attendesse un’irregolare per abbandonarsi al disvelamento delle sue sepolte irregolarità. Milano la giusta, che non ne sbaglia una. Milano la tipa, che non chiede mai e fa sempre tutto lei. Milano la svelta, che fermarsi a guardarla – se si è fortunati – si riesce solo all’alba. Milano la strana, che sceglie una siciliana per farsi tirare fuori la spina d’un pesce che non le è mai andata giù. La poesia degli irregolari, di quelli che sotto le metro, alle fermate dei tram e all’ingresso in galleria suonano, vendono castagne, cantano canzoni di qualsiasi tipo e cuciono come possono il giorno alla notte. Questa poesia suburbana, che la pandemia ha letteralmente spazzato via dalla narrazione del Paese (per far spazio alla isterica cantilena del “prima gli Italiani”), oggi è la sola poesia di Milano. Avrebbe fatto piangere e ridere Alda Merini, che di un romanzo così – chi scrive ne è certo – sarebbe stata fiera. «Riconosco la Verità, ma mi manca l’amore del mondo, l’amore imperfetto».
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Un «inganno» eccezionale
Non saprei dire se questo romanzo contiene una trama nitida, individuabile in tutta (l’inutile) prevedibilità delle trame dei romanzi. E non saprei dire nemmeno se questo romanzo contiene un’identità, ovvero un’empietà e una saggezza editoriali riconoscibili come tale. Ma contiene, questo lo so con certezza, una lingua coltissima, un’audacia stilistica straordinaria, una consapevolezza della potenza della lingua (che in libri come questi emerge in tutta la sua magia), una misura epica per quanto attraversi vicende solo umane, e un’universalità del dire che rarissimamente volte si leggono in altri romanzi contemporanei.
Ne ho assistito alla genesi, da amico periferico (via social) dell’autrice. Dal rilascio all’agente Ugo Marchetti (al quale va il merito di averlo saputo leggere! e di averlo saputo rileggere!) alla proposta alla Nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi, dalla decisione di prenderlo a quella di farlo uscire nella collana dei colossi chiamata “Oceani”. Non credo di commettere atto di trascurabile ira umana nel dire che la quasi totalità degli Editori italiani, all’indomani della proposta di pubblicazione di questo testo, avrebbe risposto «non ci sono trama, non ci sono personaggi (ridotti a filigrane delle nostre solitudini), la lingua è eccessivamente elevata per i nostri tempi», ma di certo un romanzo così irregolare e incantevole rappresenta una bella notizia (finalmente) per l’editoria italiana. «Oh la vita, il mistero che incombe sulle nostre inadeguate spalle. E alle spalle le aggrada di coglierci senza riguardo».
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Sulle tracce di “Un amore”
Come Antonio Dorigo (Un amore), la protagonista del romanzo di Veronica Tomassini si abbandona alla ricerca del sentimento. E come l’architetto inventato da Dino Buzzati, anche questa donna sospesa tra abisso e speranza (l’io narrante de L’inganno) si lascia andare alla ricerca di qualcosa che crede possa avverarsi ma non sarà mai. Mai del tutto, perlomeno. Ma non è solo fatalismo, non solo disintegrazione di sé. Questo romanzo – appunto come Un amore – in realtà esige che venga data una risposta a una condizione di precarietà, cerca un riparo il più vicino possibile alla serenità, perché se è vero com’è vero che la felicità non esiste può darsi che sull’amaca della pace (interiore) qualche refolo si possa percepire. Pagina dopo pagina, nell’abbandono psicoanalitico dei personaggi, emerge il vero protagonista di questo racconto bellissimo per intensità, tensione, emozione e richiesta di attenzione (finalmente) verso il Lettore. Milano, che a questo romanzo deve tutta la magia che nemmeno sa di produrre soltanto stando ferma. «La morte morale dell’umanità estesa a fatti minuscoli irrilevanti, cicalecci da attico con vista Duomo».
Ci sono tratti del romanzo senza nemmeno l’ombra di un dialogo, tratti che durano anche sei, sette pagine. Assenze di ruffiana cinematografia e pornografia letteraria contemporanea in cui emergono, quasi come riscossa personale, gli studi classici dell’autrice e l’assenza di qualsiasi mediazione col giornalismo (che pure pratica per questa testata e per Il Fatto Quotidiano) o con la lingua spiccia dei nostri giorni. La Tomassini punta al bersaglio grosso, punta a scrivere un romanzo distante un intero sistema solare da quelli in circolazione, demolendo (senza saperlo) tutte le scuole di scrittura in cui insegnano i più grandi narratori, e in antitesi rispetto alla pacificazione di alcuni testi pluripremiati degli ultimi anni (in cui tutto avviene fuori o dentro una famiglia). L’inganno invece è un testo di strada, da strada, per la strada. Quindi per gli uomini, che per strada ancora ci camminano. E al mondo ancora appartengono, spesso senza sapere perché.
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Cosa farne di un testo così
Ben oltre le valutazioni e le “assunzioni di responsabilità” di questa recensione, L’inganno avrà una vita molto felice nel desolato panorama letterario italiano. Perché non vuol essere un romanzo, perché non vuol difendere i romanzi, perché è scritto da una scrittrice vera e non da un’autrice “fecondata in vitro” (la felicissima definizione appartiene a Marco Ciriello, per onestà), perché non è stato scritto per piacere a nessuno o per rispondere alla prudenza e alla parsimonia editoriale con cui si progetta a tavolino la stragrande maggioranza dei romanzi. L’inganno è un libro disperato, quindi un disperato appello alla vita. Un libro irregolare, scritto da un’irregolare (nella speranza che l’autrice non se la prenda, in un Paese di regolari l’appellativo opposto personalmente mi renderebbe raggiante) e pubblicato per un destino irregolare. Entro cui, entro la cui strada, sarebbe bello se questo romanzo incontrasse un po’ di regolare legittimazione. Come l’iscrizione allo Strega, che ripagherebbe Veronica Tomassini di tante amarezze e sofferenze, anche personali. E la legittimazione della critica, che potrebbe accogliere – sperando se ne accorga! – l’autrice di Siracusa come una delle migliori nell’ambito della narrativa italiana contemporanea. Veronica lo meriterebbe, e forse sarebbe un riscatto non solo per lei. Per suo padre. Per suo figlio. Per gli irregolari che danzano ogni giorno sul rasoio della repulsione. «Ripeto la parola: “mondo”. Ci tiri su un romanzo con la parola “mondo”».
Bentornata Veronica, speriamo di meritarti.