Tradurre è un gesto di devozione arcana, perché entrare nel linguaggio di un altro significa sfidarne e sfigurarne il destino. Vuol dire svelare le intimità: lavare i verbi, detergerli, per capire come suoneranno, cosa significheranno nell’altra lingua. Ci deve essere una sintonia pazzesca nel tradurre i poeti. A Pedro Luis Ladrón de Guevara, che insegna letteratura italiana all’Università di Murcia, dobbiamo molto: se in Spagna si conoscono i grandi poeti italiani e la grande letteratura – al di là dei libri stampati per ‘far cassa’ – il merito è suo. In particolare, la fascinazione è stata per Campana, di cui ha scritto tanto, curando la traduzione dei Canti orfici. Un sunto dei suoi studi è reperibile, per altro, in Italia, nel volume Campana dal vivo. Scritti e testimonianze sul poeta (2006). Pedro Luis Ladrón de Guevara si è occupato di Alessandro Manzoni e di Leopardi, di Piero Bigongiari e del rapporto tra Jorge Guillén e Leonardo Sciascia, della Poesia di Saba in Spagna e di Mario Luzi, di cui ha tradotto la prima importante antologia in spagnolo. Soprattutto, Pedro si occupa dei contemporanei – ha lavorato sull’opera di Tabucchi, lavora su quella di Valerio Magrelli, di Calasso, di Claudio Magris e di Marisa Madieri – più attento ai sommovimenti della letteratura italiana lui di tanti critici con il frac di casa nostra. In lui, professore di prestigio, già Cavaliere al merito della Repubblica italiana, convivono più anime: quella dello studioso e del poeta. Quest’anno l’editore Ensemble ha pubblicato la raccolta Tornerò dov’ero (con le parole di Claudio Magris a introdurla, “Ma la poesia non muore; continua a cercare, a individuare, ad amare la diversità del mondo anche nello sguardo di un bambino massacrato, perché nemmeno la morte riesce a cancellare l’irripetibile unicità dell’individuo”), del suo romanzo La campana rasgada si è occupato con brio, un paio di anni fa, il Corriere della Sera. Il legame con l’Italia è testimoniato dal volume fotografico e poetico Viaggio in un’Italia senza tempo (Aracne, 2015)
Intanto, Dino Campana. Come ti sei avvicinato alla sua opera, come lo hai studiato, perché?
Mi sono piaciute subito le sue poesie, per quel mistero che possedono ma allo stesso tempo sono così realistiche. Sembrava tutto una contraddizione misteriosa e poetica! Non avevano nulla a che vedere con il Futurismo del suo tempo e invece potevano essere di una forte modernità. D’altro canto non capivo come mai venisse considerato da molti critici uno dei padri dell’ermetismo – grande movimento poetico del Novecento italiano – eppure dedicavano appena qualche riga nella storie della Letteratura Italiana alla sua figura e la sua poesia. Non era coerente.
Quali sono i suoi aspetti poetici che ti appassionano?
Con il tempo ho capito che la poesia di Campana è di un grande trasrealismo, cioè riesce a trasformare la realtà in qualcosa di magico e apparentemente incomprensible. Due esempi: nel brano 12 della Notte non c’entrano le droghe come qualcuno ha voluto far credere, il brano non è altro che l’entrata in un cinema, una tenda dove si entra nel buio, vede i funerali della battaglia di Mukden, i morti della guerra giapponese, vedute di Parigi e Londra, e mai come allora sarebbe stato così vicino a quella donna che dopo finita la seduta si allontanerà… E la sensazione, che abbiamo ancora oggi quando usciamo dal cinema, quella di sentirsi fuori dal tempo e dal luogo. O Pampa, uno dei brani più belli sulla velocità futurista, non essendo un testo futurista: “Dov’ero? Io ero in piedi: Io ero in piedi: sulla pampa nella corsa dei venti, in piedi sulla pampa che mi voleva incontro”. Immagine che ci fa ricordare la scena più famosa del film Titanic girato novanta anni dopo con Winslet e Di Caprio dalla prua della nave.
Come si traduce, infine, la poesia così espressiva di Campana?
Per tradurre Campana ho avuto bisogno di capire il testo e delle volte non capendo un brano è facile cadere nell’errore, ma mi sono lasciato trascinare dal testo stesso e dalla sua musicalità.
La letteratura italiana. Come ti sei avvicinato ad essa, cosa ti affascina di essa?
Mi sono avvicinato per caso, come tante cose nella vita (forse non esiste chi abbia conosciuto una persona fondamentale nella sua vita a una festa alla quale non pensava andare, decidendo all’ultimo momento!). Dopo gli anni di giurisprudenza dovevo fare Lettere una lingua straniera. Ho optato per italiano. Nella mia biblioteca poetica c’erano Keats, Hölderlin, Lautréamont, Gilgameš e anche Leopardi. È stato allora che cominciai ad approfondire i poeti italiani: Dante e il suo meraviglioso Paolo e Francesca dove si mettono a confronto poeta e teologo, Ariosto, Verga, Pirandello, Ungaretti… e Campana.
In Spagna, che idea si ha della letteratura italiana?
Le persone di una certa cultura conoscono i classici. Per quanto riguarda la contemporaneità ci sono gli autori conosciuti dappertutto che diffondono le loro opere alle fiere di Francoforte e di Guadalajara, e poi il lavoro delle piccole case editrici che fanno conoscere opere allontanate del grande circo del libro. Ricordo che Caproni è stato pubblicato per la prima volta in Spagna negli anni Novanta grazie a una di queste piccole case editrici, Huerga e Fierro che ha pubblicato anche Magris, Bonaviri, Luzi, Morandini. O Marisa Madieri da Minúscula.
Sei, anche, poeta riconosciuto. Come si compenetra, nella tua poesia personale, l’amore per la letteratura italiana?
Molti in Spagna pensano che il mio tono poetico abbia qualcosa di strano che non riescono a capire. La risposta è semplice, le mie letture sono in spagnolo e in italiano, lingua nella quale leggo anche autori stranieri (nella mia biblioteca le poesie complete di Szymbosca sono in italiano). Perciò le due lingue vengono usate nella mia vita giornaliera. E la mia poesia non può sfuggire a questa realtà. Certo, non posso scrivere ormai usando la rima, come nell’Ottocento, e mi chiedo: se la pittura ha avuto un’evoluzione perché la poesia dovrebbe restare come prima? Nessuno osa guardare una pittura di Picasso e chiedere perché c’è un solo occhio invece di due… Ma in poesia molti contano ancora le sillabe per vedere se è una vera poesia. Ciò che conta è che la poesia deve avere un ritmo poetico che colpisca, e se io non riesco a ottenerlo, allora è una mia sconfitta sulla carta bianca, così come trovare la parola o espressione giusta è una grande vittoria.
Quali sono i tuoi ‘padri’, le tue influenze?
Inizialmente, i classici che ho nominato prima. Dal 1993 in poi ho organizzato a Murcia degli incontri con scrittori italiani, cominciai con Antonio Tabucchi e Claudio Magris, ho proseguito con Francesca Sanvitale, Morandini, Consolo, Del Giudice, Magrelli, La Capria, Rugarli, Nanni Balestrini… e Mario Luzi di cui pubblicai la prima antologia di poesie in Spagna (anche se in realtà era apparso un libricino di 58 pagine nel 1962) e una raccolta di saggi dove Mario parlava di poesia. Anche Valerio Magrelli è venuto allora e abbiamo fatto amicizia. Le strade di Murcia sono state percorse da Jorge Guillén, che lì è stato professore. Ricordo Bonaviri che mi ha fatto diventare uno stregone con Don Chisciotte e La Capria che mi presenta in “Il circolo di Granda”.
Allargo il campo. Come vive oggi in Spagna un ‘letterato’, un intellettuale? La società spagnola assegna un ‘ruolo’ particolare al poeta, allo scrittore? Che rapporti esistono tra il poeta e il ‘potere’?
In realtà la società – non penso soltanto a quella spagnola – cerca di classificare, di assegnare un ruolo, di etichettare, in modo che se sei professore ti vedranno sempre come docente, e se sei poeta allora nessuno ti vede come professore. E’ così bello per la gente semplificare gli esseri umani e le cose! Io sono una persona che cerca di scrivere poesie. Una volta una studentessa mi ha detto per farmi un complimento che non ero un intellettuale. Le ho dovuto spiegare che intellettuale è chi riflette sui fatti, sulle cose, sull’origine dei problemi che abbiamo, è uno che usa l’intelletto. E questo non sempre piace al potere, bisogna diventare politici nel senso della polis non di un partito. Voglio dire che dobbiamo preoccuparci delle questioni sociali, delle persone che formano questa umanità dolente. Il potere continua a volere “pane e circo” (il circo lo puoi intendere, oggi, per calcio o Grande Fratello). L’amico Antonio Tabucchi era un grande intellettuale molto critico con i politici. Il poeta cerca di raccogliere momenti speciali e ingabbiarli nelle parole.
Su quale autore italiano vorresti lavorare, ora?
Adesso lavoro sulla coppia Marisa Madieri-Claudio Magris. Studio gli archivi e i documenti. Il rapporto di Magris fra giornalismo e romanzo, fra il giornalista e il saggista. Qualche mese fa ho parlato a Salmanca, per gli 800 anni dell’Università, delle tracce che si possono trovare nelle opere di Magris leggendo i suoi articoli sui giornali. Non ho finito: lui ha pubblicato centinaia e centinaia di articoli. Per non parlare delle interviste.
Quale autore ti ha dato più soddisfazione tradurre?
Non saprei dire che autore mi ha dato più soddisfazione, so soltanto che la soddisfazione arriva ogni volta che riesci a trovare la soluzione a un sintagma o a un’espressione che inizialmente non è chiara. Invece, il più bel complimento è quando qualcuno ti dice che non sembra una traduzione, allora capisci che ce l’hai fatta. Claudio Magris ha detto in una certa occasione che il traduttore, in questo caso io, era coautore del suo libro “Lontano da dove”. Mai come allora mi sono sentito così felice ma anche caricato di una responsabilità di cui non mi ero accorto.