Vera e Nathan sono soli al mondo, spogli, divisi, in un 1950 livido di tragedia. Lei è rifugiata a Tel Aviv, lui vaga per il Medio Oriente, limpidamente ossessionato, in omaggio al tradimento, vendendo carte stellari di pregio. Colpito da un morbo contratto in Armenia, mentre cercava di raggiungerla, Nathan è ora in Kirghizistan, in un bosco, dove sta costruendo una casa per la sua amata. Mentre Vera lo attende, ha tenda per lui, Nathan è coinvolto in eventi efferati della Storia, quasi fosse un sonnambulo. “Senza gestire l’ignoto” è un progetto letterario di Davide Brullo e di Veronica Tomassini. Sul blog della Tomassini potete leggere la lettera di Vera. Continueremo a fecondare l’ambiguo e l’astrale. L’ultima puntata del ciclo è qui.
***
Verso la bulimia dell’Asia, cercandoti
Lei – tentai di chiamarla Ruth, poi Rachele, poi deserto, infine, fu Gries, come il passo montano, un sentiero tra la muscolatura ghiacciata, il rischio – mia sorella – correttamente, la “bestia nata da Ismaele”, come diceva mia madre, mentre curava i fiori, nel suo giardino, a Reims, magnolie grosse come volti di neonati – la crudeltà si associa sempre alla cura, a un gesto di grazia – Gries era la figlia clandestina di mio padre, ed è per questo che ti ho chiamato sorella, capisci?, perché tu devi annientare i reflui di questa parentela schifosa – studiava a Parigi, legge, e quando scoprì suo padre marziale alla corda – si era appeso alla ringhiera delle scale del palazzo, napoleonico, affinché tutti i coinquilini potessero guardarlo, spendendo parole di pietà, finché non si divarica il ratto dell’inquietudine – se l’ha fatto lui posso farlo io – che subito si moltiplica in centinaia di immotivati ratti – posso farlo, allora, allora è possibile – senza reticenza né vergogna presso la morte – posso farlo, allora, posso uccidermi, ora – lì, prossima, la morte, un miracolo, possibile, quotidiana, accudita, accarezzata, come un cavallo, come una casa, come quelle stesse scale che mi ero rifiutato di percorrere – il bastardo ha preferito la figliastra al figlio, la selvatica al primogenito – lei, Gries, mi ha detto, scura, “per prima cosa, gli ho tolto le scarpe, ho pulito lo sporco tra le dita dei piedi, mentre penzolava, gli ho fatto le unghie, sporgendomi verso il vuoto, così attraente, delle scale – le scale sono fatte per gettarsi, non credi?, la spirale è seducente come uno sguardo”, poi ha aggiunto, “deve sapere”, si ostinava al lei, come fosse un aculeo di ghiaccio a setacciare le vergogne, “deve sapere che ero la sua concubina, che sono stata la donna del Signor Padre, la sua colpa, la sua sconcezza, la sua puttana”. Dissi qualcosa del tipo, spero se lo sia goduto, preferii perdere ogni eredità – ma il sangue, vedi, Vera, è cosa più dura della roccia, è come un versetto che ogni istante risuona, con ritmo sinistro, nelle navate del corpo – poi arrivai a Praga, e la notte mi ha donato te, l’una, l’unica, la non più toccata, perché si ama una volta per sempre, ogni replica della stessa notte è un tradimento, è l’incesto, e pensai che un corpo non è un anatema e che avverare il veleno vuol dire risorgere alla fuga. Ma se i morti sono confinati nell’arco di uno sputo sono i vivi a minacciarci.
Il giorno dopo
Decimare – questa è la parola – decidere di decimare – resterà la decima parte di me – tu, Vera, sapresti ricucire il resto? La decima parte di me è il tuo anello nuziale: sapresti nutrirti di questo decimo? Bakai mi dice che quando il poeta muore, i kirghisi lo spezzettano e seminano i brani del suo corpo in luoghi diversi, così si radica il canto, s’irradia dando eredità alla terra – dicono che basta appoggiare il viso alle pietre di queste montagne e udire il canto dei kirghisi, la loro epopea. “E io ho creato anche il distruttore per decimare”, dice Dio a Isaia – dobbiamo decimare per concimare l’amore, dobbiamo devastarci finché non resta che l’armatura di una lettera, una vocale, votata a perderci.
Voglio diventare azzurro – più reale della rettitudine – lavoro perché tu non mi riconosca, per portarti doni che rifiuterai – solo nel rifiuto si scagiona la parentela. L’anima non è negli occhi, come siamo portati a credere, per via delle lacrime, forse, della rabbia a lampi, ma nelle mani, nei polsi, nelle falangi, soprattutto, nell’osso del pollice. Quando ho ucciso Collingworth – mi è bastato stringergli il collo, con l’aiuto, compiaciuto, di Nikolaj, che avrebbe venduto l’ennesimo trofeo inglese ai sovietici – ho visto gli occhi che si dilatano, bovini, stupidi, stupiti, ma sono le mani a non smettere di afferrare, di muoversi, scattando, indipendentemente dal cuore, dal sangue, dal volo della volontà – “perché l’anima è lì, sotto le unghie, e ora scappa”, mi ha detto Nikolaj, ruotando in aria una sedia, aveva paura che s’infilasse, l’anima di Collingworth, nel corpo di un gatto, o nell’incavo di una delle sue amanti. Quelle cupe spirali sulla mano, allora, sono l’identità dell’anima, il referto della sua nostalgia – a Livorno, presso la Tipografia Coltellini, la stessa dove stampava Cesare Beccaria, nel 1768, fu pubblicata una carta del cielo in cui le costellazioni si articolavano intorno alla mano di un uomo, e pensai che basta dire la parola adatta per far serrare un pugno, per esautorare il cosmo.
Dopo, ancora
Torme di cani sfasciano il sonno, lo fanno a brandelli – qualcosa mi insegue anche qui dove si è seguaci del silenzio. Ieri abbiamo visto un monaco – ne ignoro l’architrave religioso – Bakai mi ha portato fino all’Altyn-Emel, non siamo lontani dalla Cina, dice che il mio corpo è la prigione di un fuggiasco che rinchiude un falco che rinchiude una spada – secondo lui abbiamo quattro corpi, di cui quello visibile è il più fallace – gli chiedo e tu chi sei?, nel nostro linguaggio fatto di fame, di prede, di gole a fiume, lui fa un fischio, il fischio resta a mezz’aria, come una sfera, per un po’ di tempo, poi si sfalda, lui ride, va. Il monaco abita nello sbadiglio di una roccia, indossa uno straccio che era blu, di fianco a lui c’è una spada, arsa dalla ruggine, una ciotola – Bakai s’inginocchia e va, io resto a fissarlo, lui apre gli occhi, sembrano disegnati, finti, fa un rumore con la lingua – dove vive?, da dove viene? – la sua testa sembra il punto in cui scola il tempo, ci siamo anche io e te sulla sua testa, Vera – la sua faccia è anonima, da rana.
Infine
Ho rivisto Gries – della sua bellezza, che è l’acume della crudeltà, è inutile scriverti – me ne parlò Michel Mikò, un poeta fin troppo aureo, dal corpo inconsistente, quasi alieno, ospitato da Marcel Johuandeau, lo scrittore, lo conosci, forse. Mi disse – più mi getto in Asia più m’infetta la memoria come se la lontananza la marcisse fino al nodo di nausea – amava le tigri di vetro, Mikò, e per il servigio gli regalai una composizione in cui due tigri rampanti si arrampicano una sul viso dell’altra, come se la rabbia – la cristallina estinzione uno nell’altro, di uno che s’infossa nello sguardo dell’altro – fosse l’amore. Mi disse che Gries, ancora a Parigi, procacciava sapienti puttane a tutti: ai nazi, ai collaborazionisti, ai resistenti – la voglia non distingue i giusti, non fa fazioni. Disse che le addestrava all’arte, all’essere segregate nel segreto, alla disponibilità a sopportare ogni ferocia, alla discrezione – a Praga, seppi che smerciava le sue “ninfe”, così le chiamavano, ancora, da Berlino, da Milano, da Nizza. Mikò – sarà stata la sua indole lirica a memorizzare questo dettaglio – disse che Gries educava le sue ninfe ad accoppiarsi con i cani – l’immagine risuonò indelebile in me, e mi tormenta perfino in questi luoghi, dove il cervo è statuario e il suo palco, come una complicata serratura, decide quando le costellazioni possono vagare, libere, nei mercenari recinti del cosmo. Mi blocca e mi distrugge l’immagine di un ceppo di cani, lanciati su una donna, ad uncinare ogni fessura, e mordere, sganciando la lingua, le orecchie, strali di schiena, e tra godere e sangue non c’è estasi di pudore, ma l’arcano che sempre si disfa in morte, nel moribondo. E vedo mia sorella, Gries, che è fiera mentre una delle sue ninfe – in omaggio a una colpa che sopravanza la sopravvivenza – scompare sotto i cani, due, tre, cinque, che la fottono mentre la lacerano, e io sono colto dall’orrore, dall’orgoglio.
Le nostre lettere sembrano l’espressione di un congedo, cangiante – d’altronde, da sconosciuti, ci scriviamo l’irriconoscenza che il tempo, che l’uomo ha verso di noi. Se anche fossi nascosto in una casa di Tel Aviv, immaginando l’Asia e i suoi boschi in un viavai di ombre, scortando, tutti i giorni, la tua bronzea quotidianità, tu, Vera, non ti accorgeresti di me, Nathan. Bakai vede la mia inquietudine – mi mostra un cervo – la bestia corre rincorsa dalla notte, che si alza ora, legata alle sue corna con nodi stellati. Gli dico il tuo nome, “Vera”, e lui, a gesti, mi dice, seppelliscilo. Faccio così – in questo luogo crudo – la terra non è facile e devo rendere lupi le dita – alle ginocchia dell’Asia – seppellisco il tuo nome. Pronuncio “Vera” nel buco – lo richiudo. Così, giura Bakai, esisterà per sempre, “Vera”, germoglierà in erba, giura.
Nathan