07 Marzo 2022

Credere è cedere a un’illogica follia. Discorso sul Messia

Che unto, nel dire comune, celebrato dall’eucaristico vocabolario, significhi lordo, laido, “sporco di materia grassa” (così la Treccani), è sacra circostanza. Per contrasto, a pascere il santo nel fango, l’elezione nell’abiezione, l’Unto è re nella melma, signoreggia nella viltà, s’immerge tra i lati oscuri, osceni. In effetti, tutto ciò che riguarda Dio non deve essere visto, non ha scena, è fuori dalla scena, osceno; perciò il gesto di Gesù – Dio che si vede, ha corpo che si deve leccare, lambire, trafiggere, bucare, e germoglia primavera di sangue, ovunque – rasenta l’abominio. Che accada – anche la cruna di una parola – in contrapposizione al comune, al ‘sociale’: eccolo, il sacro, altare configurato in trogolo.

In ebraico con le consonanti msh si costruisce il verbo “ungere; consacrare”; alternando la heth (h) con la hei (che si pronuncia con sussurro più netto, d’arbusto al fuoco) abbiamo Mosè; masíakh è l’Unto, il Messia. L’olio galleggia sull’acqua con la sinuosa perentorietà di un suono; d’altronde, “lo spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gn 1, 2). Viene unto ciò che muore al mondo per consacrarsi a Dio, carne che levita sulla carne, levata al mondano: la consacrazione è, di fatto, massacro. L’Unto è il moribondo. Il capitolo 40 di Esodo delinea il canone: perché diventi “cosa santa” ogni cosa che sta nella “Dimora”, luogo del convegno tra Dio e l’uomo, deve essere unta: “l’altare degli olocausti e i suoi accessori… Aronne e i suoi figli… la loro unzione conferirà loro un sacerdozio perenne, per le generazioni”.

Non ci si sottrae all’unzione, si è unti di Dio fino alla morte: il sacerdote non è differente dall’olocausto, entrambi cibo di Dio. Anche i re erano unti, oscuro privilegio concesso all’armato amato da Dio – e si è re per sacrificio, per morirne. Davide è unto più volte: Samuele, il profeta giunto da Rama, “lo unse in mezzo ai suoi fratelli e lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi” (1 Sam 16, 13); “gli uomini di Giuda unsero Davide re sulla casa di Giuda (2 Sam 2, 4) a Ebron; è come se subisse l’unzione del prescelto e quella del re, è unto da Dio e dagli uomini.

Gesù, che discende da Davide, è unto da una donna, con “unguento di nardo”, a Betania. Secondo gli evangelisti Marco e Matteo la donna non ha nome – eppure: “in tutto il mondo si parlerà di ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei”, Mt 26, 13, quasi a sugellare il genio dell’anonimato – e unge il capo di Gesù; secondo l’evangelista Giovanni è Maria a ungere il Nazareno con “puro nardo”, “ne cosparse i piedi, poi li asciugò con i suoi capelli” (Gv 12, 3). Che la scena dell’unzione a Betania preceda il tradimento non sorprende: la donna mutila di nome che ha unto Gesù facendolo Cristo è, insieme a Giuda, complice nel dramma della Passione, che recluta il Risorto. A differenza dell’unzione mosaica, quella di Gesù è accolta tra le chiacchiere, tra le polemiche: il Figlio rompe le labbra ai legalisti, “ella ha computo una buona azione verso di me”, dice, disponendo il corpo alla sepoltura. Non c’è solennità ma grazia nel gesto della donna e forse il segreto del Messia è celato nei piedi. Ad ogni modo, l’unzione è un gesto cauto, senza applausi, che va colto nel tremore. Chissà se nel “vaso di alabastro” maneggiato dalla donna non sia prefigurata la ricostruzione dei vasi infranti che hanno prodotto il male nel mondo, secondo la Cabbala luriana: “La rottura dei vasi è l’evento decisivo nel processo cosmico. In conseguenza di essa tutte le cose in qualche misura portano in sé una frattura, e ogni cosa esistente – finché questa rottura non è sanata – ha una certa manchevolezza… La restaurazione della condizione ideale, a cui originariamente mirava la creazione, è ora la meta segreta di ogni avvenimento” (Gershom Scholem).

Anche Cristo passa per diverse unzioni: gli sputi dei soldati – “e gli sputavano addosso”, Mc 15, 19 – e infine il sangue. L’unzione per sangue è il passaggio all’ambito dell’abominio: l’Unto è l’unto, lo sporco, il laido. Autentica è solo l’unzione per sottrazione, la Dimora è il sepolcro, la Testimonianza è il corpo morto, arca martoriata.

Giovanni indica che a Betania, “sei giorni prima della Pasqua”, Gesù fu ospite a casa di Lazzaro, “che egli aveva risuscitato dai morti”. L’unzione a Betania, dunque, prepara a risorgere. Secondo Marco e Matteo, invece, Gesù era ospite di “Simone il lebbroso”: secondo alcuni studiosi il lebbroso era in verità un esseno; io credo che nel Testo anche gli errori siano sacri. Il lebbroso è unto – laido, livido, sporco al male – al contrario. Secondo Rainer Maria Rilke, ossessionato dalla leggenda di San Giuliano l’Ospitaliere, che già aveva ossessionato Flaubert, il compito del poeta, dell’uomo integro, è adagiarsi di fianco al lebbroso, abbracciarlo “in quell’estremo abbraccio… che ha per impulso l’amore, l’intero amore, tutto l’amore che si trova sulla terra” (così A una fanciulla, in una delle “Lettere da Muzot” ora raccolte in Noi siamo le api dell’invisibile, De Piante, 2022). Se prima era Dio a divorare, da ora è l’uomo a masticare Dio.

Unti all’inadempienza, a un’ignoranza senza tribuna, latitanti, insieme ad Alessandro Dehò forgiamo un Nuovo Alfabeto del Sacro.

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La donna ha fatto ciò che poteva: ha anticipato l’unzione del mio corpo, la mia imbalsamazione.

Giuro, entrava a violentare le narici, imbalsamato a un gesto d’amore il Crocifisso resisteva, come radice di nardo torchiata in essenza preziosa, il profumo rimaneva invincibile anche nel cuore di quella carneficina. A niente la violenza gratuita, nulla potevano i soldati, quell’uomo, bulbo slogato in massacro, franava in fragranza, come fosse già al sicuro, oltre la violenza, protetto da un amore precedente, più sfacciato di quello del Padre.

Mentre il sangue incrostava in stimmate le spine stupivano le tempie in roseto. Il nardo, profumo di chi si svende per amore, irrideva la morte senza interferire con il destino. Profumava la fine senza bisogno di vendetta. Il miracolo di una bellezza senza senso alcuno.

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Alcuni sdegnati fra loro dicevano: Per cosa lo spreco di questo nardo è stato?

Per lo spreco, solo per la nobiltà dello spreco. Cuori rattrappiti, cuori contabili, in loro perdura tutt’ora lo sdegno, loro intimo inferno.

Imbalsamato in un gesto d’amore l’Unto irride chi fa della propria vita un progetto. Anarchico e incontenibile il Dio dello spreco nulla trattiene, l’amore si sperpera come semente in campo aperto, solletico all’arido, pioggia per i deserti dell’anima. Una vita consumata, inutile, come giglio tra i gigli del più periferico dei campi. Più moriva torchiato dalla violenza più il nardo dissipava tra le narici degli assassini.

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Si poteva infatti questo nardo vendere a oltre trecento denari ed essere dati ai poveri. E fremevano contro di lei.

Ma lui sarebbe morto invano. Senza l’unzione di quella donna non ci sarebbe stata resurrezione. La fede non si accontenta della giustizia ma pretende un profumo nuovo a cui aggrapparsi. Stolto l’uomo di chiesa che crede di dover perseguire ragionevolezza nel mondo sempre iniquo, inutile e patetico meccanismo nell’ipocrisia politica delle apparenze.

Si crede solo per perpetuare lo spreco, per dar credito all’impalpabilità di un profumo. Non cambieranno le sorti di questo mondo ma se il dramma si tramandasse senza nardo, senza l’affilata luce di quel profumo, tutto si accartoccerebbe per sempre. Sarebbe l’inferno. Imbalsamati in uno spreco di grazia, frantumati in essenza d’Altrove, rimane solo il profumo. Siamo unti per profumare il massacro. Credere è cedere a questa illogica follia.

Si ungono gli altari su cui si immolano le vittime, unto è il profeta che muore per delirio di verità, il sacerdote che ricama l’invisibile improduttività del sacro e il re crocifisso a una fedeltà non richiesta. Elogio delle vite sprecate in nome di una promessa che non intacca i meccanismi umani.

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Era Gesù in Betania, nella casa di Simone il lebbroso, giaceva a mensa con lui, venne una donna, aveva un vaso d’alabastro, unguento di nardo genuino, molto costoso, spezzò il vaso d’alabastro, versò il nardo sulla sua testa.

Giuro, ai piedi della croce quei trecento denari di profumo umiliavano i trenta del traditore.

E quando un vaso si ricompose attorno al cadavere del lebbroso crocifisso, quando l’imbalsamato, l’Unto, venne deposto oltre lo sbarramento di un masso, qualcuno si illuse di essersi liberato di lui per sempre.

Invece fu come se Cristo e quella donna misteriosa diventassero finalmente una cosa sola. Toccava a lui, ora, incrinare l’alabastro tombale, lui dissolversi in un gesto d’amore incontenibile, lui nardo genuino e purissimo.

E per puro spreco si compì la resurrezione, eredità comprensibile solo alle vite sprecate di ladri e di prostitute e di discepoli finalmente inciampati in tradimento.

Nessun senso se non quello di scardinare il delirio di Adamo, nessun frutto da rubare se il frutto stesso si consegna a chiunque, se rompe la scorza e non accetta nessun tipo di sequestro. Impossibile impossessarsi del profumo.

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Era la pasqua, e gli azzimi dopo due giorni.

Vivere è uno spreco, abominio per la sapienza del mondo, è ungere la morte, profumarla, liberare una fragranza al cielo, sperare in un respiro più grande. Non ci resta altro, non cambieranno le logiche del mondo e pure le nostre storie non finiranno di svendersi a deliri di morte, le morali continueranno a voler perpetuare l’illusione del controllo e le ideologie a promettere improbabili utopie. Ma spezzare vasi e liberare profumi dall’alabastro, lasciarsi piagare dalla vita ma su ogni ulcera accarezzare la sfrontatezza di un nardo purissimo, questo possiamo.

Alessandro Dehò

Gruppo MAGOG