“Soviet Man”. Hélène Iswolsky, l’anticomunista che oppose Cristo a Stalin
Cultura generale
Fabrizia Sabbatini
Beviamo. Al Caffè Commercio eternato da Federico Fellini in Amarcord, di fianco alla Biblioteca civica più antica d’Italia, la ‘Gambalunghiana’, l’anno prossimo fa 400 anni. Dico sempre la stessa cosa. “Nel 1617 il signor Gambalunga fa testamento a Pesaro, apre la biblioteca privata ai concittadini riminesi, dalla morte sua – caduta due anni dopo – e destina perfino lo stipendio al bibliotecario, Michele Moretti, per ampliare i beni bibliografici: oggi, 400 anni dopo, il Comune, da dieci anni, non può permettersi il direttore della biblioteca!”. A un certo punto, nel pieno di Rimini, mentre la luce sbava sui muri secenteschi, la bufera di neve.
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Ho fatto l’alchimista degli affetti. Terzo episodio di Hybris. Discorsi sulla tracotanza e sul tramonto, il ciclo di incontri ideato da Pangea. Sabato. Rimini. Ore 18. Insieme a me, Marzio Mian, giornalista di calibro, che va nei luoghi dove nessuno osa e scrive come pochi sanno – sbarca in Romagna dopo una gita in Norvegia e in Russia. E Alessandro Ceni, poeta. Per me, il più bravo, oggi, in Italia. Ma se lo dico lui si fa bestia. Marzio ha scritto per Neri Pozza un libro bellissimo, s’intitola Artico, e racconta perché il Grande Nord è diventato la terra della grande speculazione, delle smargiassate finanziarie. Racconta, soprattutto, la fine del mito dell’innocenza ideale, di quella terra bianchissima che abbaglia come l’Eden, landa promessa della nudità e del perdono. Il Nord dove puoi azzerarti e risorgere, limpido. A un certo punto. Mian tira fuori una manciata di fogli. “Sai che si dice che gli eschimesi hanno cento modi di dire la parola ‘neve’…”. Ecco la lista. Tlapa: “neve polverosa”; Tlamo: “neve che cade con grossi fiocchi”; Tlatim: “neve che cade con piccoli fiocchi”; kriplyana: “neve che pare blu di prima mattina”; Mentlana: “neve rosa”; Mortla: “neve che si accumula sui corpi morti”… La neve sfiora il neoplatonismo nella parola penstla, “l’idea della neve”. Come si può pensare la neve immersi nella neve? Esiste un biancore ideale più bianco della bianchezza della neve, quell’infinito Moby Dick artico? In questa rassegna di parole, ambasceria di mondi ignoti, avverti, sulla lingua, il nitore della poesia. La bufera a Rimini. Decuplicata in cento parole. Sarebbe piaciuta a Fellini.
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Per altro, si ragiona su una domanda australe. La poesia viene dal freddo o dai paesi caldi? Nel clima temperato nasce il pensiero. Penso alla Grecia. Tutti siamo d’accordo. La poesia viene da Nord, cala come la neve, l’endecasillabo è una variante della stalattite, il poema è un iceberg. “La poesia è dove c’è un concreto rapporto con la forza”, dice Ceni. E con la sopravvivenza.
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Marzio Mian ha la perizia del giornalista, ma lo stile ha bagliori conradiani. Il suo libro si legge come un romanzo. Livido. Come neve screziata dal sangue. Così, ad esempio, descrive Teller, il punto dove l’Alaska sfiora, quasi, la Russia. “Erano queste le colonne d’Ercole del Grande Nord ai tempi del Norge, paradigma di spazi inviolati e metafisici; oggi i due lembi di terra che separano il Pacifico settentrionale dall’Artico, questi avamposti continentali che si sfiorano come gl’indici delle mani protese nella Creazione di Michelangelo, segnano la linea di centrocampo nella partita tra due superpotenze e la porta d’ingresso verso un immenso Klondike. Annunciano anche l’inizio di un nuovo mare, sempre più blu, sempre più caldo, sempre più al centro degl’interessi globali”. Senza la scrittura non esiste la ‘notizia’.
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Quando Marzio ricorda la vicenda della famiglia di pescatori islandesi che rifiuta la modernità e in perfetta solitudine non arretra davanti alla falange delle iene, un brillio avvolge il pubblico. “Reimar Segurjonsson, sua moglie Dagrun e i loro quattro figli” non obbediscono alla legge bastarda della globalizzazione. “Non vogliamo cambiare, ci piace il silenzio, la solitudine. Noi prendiamo la nostra barca, peschiamo quel che ci serve per mangiare. La maggioranza delle persone qui pensa che diventeranno ricche; ci chiedono: perché non vendete? diventerete ricchi… Ma noi non vogliamo diventare ricchi. I pastori non vivono per i soldi, ma per la natura e per le radici. Questo posto abita nel nostro cuore”. Anche il poeta, Ceni, ha un sussulto. “Resistere. Dobbiamo resistere. Ciascuno con le proprie singole scelte. Siamo soli? Bisogna avere il coraggio di abitarla, la solitudine”. Che innevato eroismo.
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Negli stessi giorni, il Nord si è impossessato della mia casa marina. Correggo le bozze di un romanzo incentrato su Boris Pasternak, sul Nord aristocratico che dirige la sua vita, i suoi versi. Rileggo questo brano. “Avvistarono sempre più lupi lungo il lago. Colavano dalle montagne, grigi e magri, saggi, come se qualcosa li avesse indottrinati in merito al dolore e alla nudità. Uno fu visto lottare nell’acqua, sulla sponda dove sbuca la statua di un re qualunque. Il lupo uscì dal lago, usando la coda come una pinna – nella bocca scattava un pesce enorme – i turisti urlarono: sembrava che la bestia stesse sbranando un bambino, sacrificato a qualche divinità contraria. Non bastarono le forze dell’esercito a placare la calata dei lupi. Un cervo dal palco lussureggiante fu visto sul lungolago di Stresa; lo assalirono dei ragazzi, abolendo il muso, inghiottito in un guaito. Attaccarono le sue corna, belle e sibilline, sulla porta della città, costruita dai romani, e recapitarono il cranio al sindaco. Era in atto – lo è – una lotta tra le specie, mentre il cuore ghiacciato della montagna, immobile come una città di tende intrecciate, inviava al mondo i suoi sicari e i suoi disperati. Di fronte alla rivolta delle montagne cosa dirà il cielo? Mi commuoveva l’orgoglio con cui Pasternak ribadiva la sua giovinezza”.
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La parola del poeta è decisiva, la sua agonia-agone con il linguaggio è intesa a portarci sempre un passo in là dal noto, dal trionfo del tronfio. Alessandro Ceni conclude l’incontro. Gli chiedo di leggere la porzione XXVI del suo libro più alto, Mattoni per l’altare del fuoco.
«Presto sarà l’inverno
e il male che ci donammo
da lungo tempo non colto
maturerà appieno nell’ospizio del gelo.
Forse la funebre uccella siberiana,
colei nel cui utero già si dibatte e ride
l’orrendo e sacro implume,
dalla vetta di una mistica cipressa
chiamando a raccolta i suoi
contro il marmo del cielo
lascerà cadere dal becco anche te
e in questa mezza luce,
in questa sospensione o suono
come di revocata incursione aerea
darà inizio alla neve».
Quando così ti parlo e gli altri
in un denso fumo si rialzano
si guardano attorno e lasciano la sala,
sull’orlo dei tuoi occhi compare
un glutine di torpida inconsistenza spirituale;
perdi conoscenza.
Presto sarà l’inverno e
tu ancora non capisci che la caduta è eterna.
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L’eternità della caduta mi ricorda Rainer Maria Rilke. La neve. L’amare. Che è una caduta. Una innevata.
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Più tardi andremo nelle interiora di Rimini, a Montescudo, il borgo napoleonico. Gli abitanti della rada rocca, infatti, mentre Napoleone furoreggiava in Italia, inviarono una delegazione a rendergli omaggio. Si consegnarono, idealmente, a Napoleone – lo preferivano alla ramanzina dei papi e alla boria dei principotti locali. A quel punto è la sera, trapanata dalle luci della Riviera, e per me è il tempo della gratitudine. (d.b.)