18 Giugno 2022

“Con gli occhi iniettati di sangue”. Come Moby Dick mi ha cambiato la vita

Moby Dick di Melville è un libro che attraversa il cuore come una spada a doppio taglio: per la sua vertiginosa interrogazione sul male, per il racconto di un viaggio metafora della vita, per la sua prosa innovatrice e così infiammata.

Fu pubblicato nel 1851, in un’epoca di fervore della letteratura americana. In quegli stessi anni infatti videro la luce La lettera scarlatta di Hawthorne (1850), Walden di Thoreau (1854) e Foglie d’erba di Whitman (1855). E iniziava a coltivare la sua vocazione di poetessa Emily Dickinson, la grande solitaria. Quando Cesare Pavese tradusse per la prima volta in Italia il capolavoro di Melville mise subito in guardia i lettori sulla posta in palio:

“Si legga quest’opera tenendo a mente la Bibbia e si vedrà come quello che potrebbe anche parere un curioso romanzo d’avventure, un poco lungo a dire il vero e un poco oscuro, si svelerà invece per un vero e proprio poema sacro cui non sono mancati né il cielo né la terra a por mano. Dal primo estratto di citazione «E Dio creò grandi balene» fino all’epilogo, di Giobbe: «E io solo sono scampato a raccontarvela» è tutta un’atmosfera di solennità e severità da Vecchio Testamento, di orgogli umani che si rintuzzano dinnanzi a Dio, di terrori naturali che sono la diretta manifestazione di Lui”.

In una splendida biografia di Melville, Paolo Parisi Presicce ha compendiato i modelli d’ispirazione del romanzo: Il Libro di Giobbe fa da modello o stampo per la sfida interrogatoria al divino. Il Libro di Giona, attraverso il personaggio di Ishmael, per l’obbedienza cieca all’universo; il King Lear di Shakespeare per il crollo tragico e inevitabile dell’autorità; il Paradise Lost di Milton per l’ambizione incrollabile; il Doctor Faustus di Marlowe per la tentazione demoniaca; il Faust di Goethe per l’ossessione eroica, l’Anatomy of Melancholy di Burton, letto più volte, per una psicologia nostalgica e invalidante.

Moby Dick può intimorire il lettore di oggi. Forse l’editor di una grande casa editrice lo boccerebbe, per la mole, per l’attacco lentissimo con pagine di citazioni, dalla Genesi a Darwin, per la cetologia (ma i cataloghi sono il marchio di fabbrica dei libri epici). Eppure, chi porta a termine il libro ne resta segnato per sempre: perché Moby Dick è una grande avventura dello spirito.

Io ne rimasi conquistato negli anni universitari grazie agli insegnamenti di Giampiero Neri (Erba, 1927) il decano della nostra poesia. Neri mi parlò di Moby Dick come di libro grandioso, profetico, che abbracciava la crisi dell’uomo moderno e che andava collocato subito dopo l’Iliade e la Divina Commedia. Un libro, spiegava, da centellinare come la Bibbia. Tra i suoi passi preferiti, il capitolo CIV, «La balena fossile», in cui si disvela il «sogno» di Melville:

“Datemi una penna di condor! Datemi il cratere del Vesuvio per calamaio! Tenetemi, amici! Poiché nel semplice atto di vergare i miei pensieri intorno a questo Leviatan, i pensieri mi stancano, mi spossano con la loro immensa comprensività, come per includere tutto il giro delle scienze e tutte le generazioni presenti, passate e di là da venire, di balene, di uomini, di mastodonti, con tutti i mutevoli panorami di potenza sulla terra e nell’intero universo, non esclusi i sobborghi. Tale e talmente significante è la virtù di un grande argomento. Nessun’opera grande e duratura potrà mai venire scritta sulla pulce, benché molti abbiano tentato”.

Un giorno Neri mi confidò che al risveglio dopo un’operazione di cancro chiese per prima cosa se avrebbe potuto leggere ancora una volta Melville.

Già, Moby Dick è un libro che ti cambia la vita e dopo le «lezioni» di Neri anch’io caddi nel gorgo. Chissà, forse la mia disposizione verso il libro fu naturale perché sono nato sul mare di Genova, perché dalla finestra di casa vedevo il porto, e perché in famiglia siamo cresciuti con storie di naufragi, di attese e di lente malinconie… Mi misi così in cerca delle diverse traduzioni del romanzo ed esplosi di gioia quando trovai per una manciata di euro la versione di Pavese, l’edizione Frassinelli del 1942 con una rossa custodia rigida. Sull’esterno si leggeva: «Questo libro è la massima rivelazione poetica che ci sia giunta d’oltreoceano» e la copertina del volume era l’iconica balena bianca su campo celeste passata alla storia della grafica editoriale. L’infatuazione per Moby Dick mi portò persino a comprare balene in miniatura da mettere sulla scrivania, non importa se tagliate in un pezzetto di marmo acquistato sulle Alpi apuane o sulle bancarelle dei Navigli. Il mio ufficio è così diventato un piccolo santuario di cetacei…

Ho continuato poi ad avere una scoperta sensibilità per tutto quello che ruota intorno alla balena bianca. E mi sono sempre chiesto perché nel nostro immaginario sia spesso accostata a qualcosa di innocente, rassicurante, quasi da classico per l’infanzia, quando essa è esattamente il contrario: Moby Dick è il mostro implacabile, striato di cicatrici, segno del male e del mistero. Moby Dick affonda le navi e non si arrende mai.

Tutto questo spiega perché una notte al Teatro Litta di Milano fui folgorato dal monologo Io, Moby Dick di Corrado d’Elia (e ogni volta che viene riproposto in cartellone cerco di non perderlo).

Dello spettacolo mi colpì ogni cosa.

La scenografia essenziale, per esempio. Un uomo vestito di bianco su uno scranno (per Melville il bianco non rassicura, è colore del lutto e della paura). Un uomo circondato da una corona di cannocchiali per inseguire mille e mille volte ancora il mostro che gli ha strappato la gamba. E la musica: un’assediante riproposizione di un’antica Ave Maria, solcata però dagli inquietanti gemiti delle balene.

E poi, il testo.

Un testo sincopato, l’elettrocardiogramma di un’ossessione, come si intuisce dal rapinoso esordio:

Quello che alla fine siamo
le nostre ossessioni
un quadro, una donna, un libro,
una musica
il mare, la balena, il teatro.

Quello che alla fine siamo
ciò che ci alimenta
anche quando tutto è finito
anche quando abbiamo perduto
ciò che rimane.

Di quel monologo allucinato mi restarono impressi tre momenti, ben fissi nell’anima, come gli arpioni di Achab sul dorso della balena. L’esordio, appunto, che è la storia di una sconfitta, ma anche la ricerca disperata della felicità. Poi l’inizio dell’avventura, quando tutto è placido e nulla fa presagire l’abisso:

C’eravamo imbarcati la notte di Natale dell’anno 1841.
Da giorni facevamo rotta verso mari più caldi
ma l’inverno spietato non ci dava tregua
le giornate erano fredde e limpide
le notti erano stellate e maestose.
Sembravano donne eleganti
in abiti di velluto
con collane luccicanti di pietre preziose.

Una partenza solenne verso il mistero che ricorda Il viaggio dei magi di T.S. Eliot:

Fu un freddo avvento per noi,
proprio il tempo peggiore dell’anno
per un viaggio, per un lungo viaggio come questo:
le vie fangose e la stagione rigida, nel cuore dell’inverno.
E i cammelli piagati, coi piedi sanguinanti, indocili,
sdraiati nella neve che si scioglie.
Vi furono momenti in cui noi rimpiangemmo
i palazzi d’estate sui pendii, le terrazze,
e le fanciulle seriche che portano il sorbetto.

E, infine, il reiterato rifiuto di Achab di soccorrere la nave Rachele in cerca di una scialuppa perduta. Ricordo che il teatro sembrava tremare per l’orrore di quel «gran rifiuto», ma Achab non aveva tempo da perdere, la febbre non gli lasciava tregua, doveva inseguire il suo demone…

Ecco, Achab: non è facile far rivivere in carne e ossa l’uomo/demone presentato in modo impareggiabile da Melville dopo un’attesa di ventisei capitoli del romanzo:

“Il capitano Achab era sul cassero. Non pareva avere indosso segni di una comune malattia fisica, né di convalescenza alcuna. Aveva l’aspetto di un uomo staccato dal rogo quando il fuoco ha devastato, trascorrendole, tutte le membra, ma senza consumarle o rubar loro una sola particola della compatta e vecchia robustezza. Tutta la sua figura alta e grande sembrava fatta di solido bronzo e foggiata in uno stampo inalterabile, come il Perseo fuso del Cellini”.

Achab, «roso di dentro e arso di fuori dagli artigli fissi e inesorabili di un’idea incurabile», ma Corrado d’Elia riesce magnificamente a portarci nel cuore di questa ossessione.

Achab è una cicatrice che cammina. Una ferita multiforme che continua a sanguinare: è Faust, Prometeo, Ulisse, ma è anche un uomo assetato di verità. Un dolente, un grande inquieto, come i tanti personaggi portati in scena da d’Elia, dal genio di Beethoven minato dalla sordità a uno stupefacente Riccardo III che sulla scena vive di sola voce e con essa piega tutti al suo disegno malvagio. L’Achab biancovestito di d’Elia è stregato dal mistero. Non cerca risposte consolatorie. Vuole una vita autentica, la implora fino a strozzarsi la voce. Ha in orrore l’uomo imborghesito in cerca di facili compensazioni. L’uomo dalla vita comoda, bolsa, che rinuncia ai grandi Quesiti. Quell’uomo che anche Melville detestava come testimonia una lettera del 1849 a Evert Duyckink, amico e consulente editoriale, due anni prima della pubblicazione di Moby Dick (e sono grato a Paolo Gulisano nell’averla messa in evidenza nel suo ottimo Fino all’abisso. Il mito moderno di Moby Dick):

“C’è in ogni uomo che si eleva al di sopra della mediocrità un qualcosa che, per lo più, si percepisce d’istinto. […] Io amo tutti gli uomini che si tuffano. Qualunque pesce sa nuotare vicino alla superficie, ma ci vuole una grossa balena per scendere a ottomila metri o più, e se questa non ce la fa a toccare il fondo, beh, tutto il piombo di Galena non basta a forgiare lo scandaglio in grado di farlo. Sto parlando dell’intero corpo dei «palombari del pensiero» che si sono immersi nel fondo per ritornare a galla con gli occhi iniettati di sangue da che è cominciato il mondo”.

*Si riproduce per gentile concessione parte dell’“Invito alla lettura” di Alessandro Rivali a “Io, Moby Dick” di Corrado d’Elia, Edizioni Ares, 2022

Gruppo MAGOG