21 Settembre 2024

“Dio non avrebbe mai inventato una cosa stupida come l’inferno”. Sui romanzi salutari di Tove Jansson

La morte nelle pagine di Tove Jansson ha la quiete del legno che brucia in un camino, la morte non è mai infelice né toglie la felicità anzi ne è parte, sta nelle case, nel corpo, negli abbracci, nei silenzi, nella neve; i libri di Jansson – mi riferisco a L’onesta bugiarda (Iperborea, 1990) e a Il libro dell’estate (Iperborea, 1989) – sono una struggente e gioiosa partitura su cosa sia la vita. Per lei la vita è un evento che va celebrato, non a caso ogni agosto la scrittrice finlandese, ma di lingua svedese, festeggiava i compleanni sull’isola Klovhar, nell’arcipelago di Porvoo, dove ha vissuto per venticinque estati con la compagna, Tuulikki Pietilä; era nata ad agosto, mese dei mirtilli, e a tavola infatti c’era sempre una torta di mirtilli. Dal 2020 il compleanno di Tove Jansson, non a caso, è una festa nazionale in Finlandia, la bandiera finlandese viene issata in tutto il paese per celebrarla dalle 8 alle 21. 

In una celebre fotografia Tove nuota nella laguna della sua isola, ha in testa la corona di fiori per il suo compleanno – i fiori, a dire il vero, erano di plastica; è il segno che ogni aspetto dell’esistenza è un ringraziamento. La scrittrice amava pietre, conchiglie, pace, non voleva altro.

“A volte sono sottili come aghi, estremamente fragili e delicate, e si devono maneggiare con grande precauzione. A volte sono invece femori massicci o una gabbia di costole, sepolte nella sabbia come l’ossatura della chiglia di una nave naufragata. Ce ne sono di mille forme, e ognuna ha la sua struttura”.

Le ossa come foglie, sassi, tronchi, la morte nella vita, la vita nella morte, come canta Michelstaedter; in Jansson non ci sono separazioni ma unioni, la natura ha un solo respiro e nessun sospiro, la fragilità delle cose indica la vicinanza di vita e morte, la sottigliezza tra buio e luce è la linea che tiene insieme tutto; la nipote e la nonna, in una serie di quadri, raccontano l’inizio, la fine, la semplicità delle ombre, l’intensità della luce del nord, le distanze dell’acqua, la felicità di camminare nei boschi, parlare con la gente, lavorare il legno in silenzio. Il tempo in queste pagine è leggero e si esaurisce ma c’è qualcosa di più potente ancora, il gesto estremo del vivere, l’atto stesso, il suo semplice trovarsi nel mondo.

La malinconia luminosa di Jansson racconta le piccole vite che sono sempre grandi, descrive quella che crediamo la nostra insignificanza e invece è la nostra anima.

“La gente si svegliava tardi perché il mattino non esisteva più, il villaggio giaceva muto sotto un manto di neve intatta fin quando i bambini venivano lasciati uscire e incominciavano a scavare tunnel e grotte e strillare felici della loro libertà”.

Anna Aemelin è una disegnatrice solitaria, chiusa, lontana dal mondo, sente la sua esistenza soltanto quando ha la matita sul foglio, la casa e i dintorni sono avvolti dalla neve, neve che ha il senso del tempo che passa – cancella ogni cosa, ogni passaggio, la neve che cade è una lezione stoica su come vivere perché tutto viene e va via ma senza il distacco tanto caro a Seneca; i personaggi di Jansson sono minimi per scelta, preferiscono seguire l’essenzialità, la stessa che si ritrova nei film di Ozu – è come se invece di manipolare, stuprare, modificare bisognasse assecondare la linea che la natura ha tracciato per noi.

Mentre i personaggi di Knut Hamsun ne I frutti della terra si scontrano contro una natura ostile e terribile che provano a rendere fertile usando il dolore del male e della volontà, quelli di Jansson si mettono in ascolto per imparare ciò che dal mondo ci arriva attraverso una narrazione a bassa voce, come parlasse da dietro una finestra. Le pagine sono un atto d’amore verso la vita, tutto viene accettato, il freddo e il caldo, la notte e il giorno, sempre alla ricerca del nuovo che porta l’antico. Dopo la morte della madre nel 1970, Tove comincia a viaggiare con Tuulikki, inizia a scrivere per adulti, dopo aver avuto successo con straordinari libri per l’infanzia, due anni dopo pubblica Il libro d’estate, storia di Sophia, del padre e della nonna e delle loro estati su un’isola dell’arcipelago, ispirata alle estati di sua nipote Sophia con il padre Lars (fratello di Tove) e nonna Signe Hammarsten-Jansson. Per la scrittrice la bugia non è una finzione immorale, non è diseducativa ma uno dei modi di ricreare la vita, aggiunge e non sottrae, sente la condizione umana come mancanza e la serenità come condizione ultima.  

“Dio non avrebbe mai inventato una cosa stupida come l’inferno”.

Qui c’è, in fondo, la visione del mondo di Tove Jansson, il suo sguardo fisso sulla luce.

“Puoi ben capire anche tu che la vita è già abbastanza difficile così senza che poi si debba anche essere puniti”.

C’è il ribaltamento pagano della tragedia protestante, che affida all’inferno la pena e la colpa, la condanna eterna decisa da pochi anni di vita. Per Jansson ogni esistenza uscita fuori dal suo movimento è un sentiero che si allunga verso la vecchiaia, il tempo è la nostra condizione naturale che nessun orologio potrà mai rendere artificiale per cui la senilità è la dichiarazione di come siamo, passando, e mai rimanendo.

“La neve era già pesante e fradicia, e nel bosco agitato grossi blocchi di neve franavano dai rami degli alberi, e molti rami si spezzavano proprio nel momento della liberazione”.

La liberazione nel momento in cui tutto finisce è un’immagine poderosa, il ramo si spezza e si entra nell’altro lato della natura, quello della fine, da cui poi non si può più andare via, come l’acqua che diventa neve, ghiaccio o vapore portando ogni volta un termine che ha la metafisica della rinuncia all’Oltre. Per amore di quello che c’è sulla terra, nella terra, in ogni altro luogo, che sia paradiso o inferno, in fondo l’essere umano si sentirebbe solo smarrito.

Pařížská 1

*Le traduzioni sono di Carmen Giorgetti Cima per Iperborea.

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