A volte, perfino la tenebra è solare. Una delle poesie più truci del canone occidentale novecentesco s’intitola The dogs are eating your mother. I cani stanno mangiando vostra madre. L’attacco è questo:
“Quella non è vostra madre ma il suo corpo.
Lei è saltata dalla nostra finestra
ed è caduta laggiù. Non sono cani, quelli
che sembrano cani
occupati a sbranarla. Ricordate il magro segugio
che correva su per il vialetto reggendo alti,
penzoloni, la trachea e i polmoni sanguinanti
di una volpe? Ora guardate chi
atterra a quattro zampe in fondo alla strada
e si precipita smanioso verso vostra madre,
ne sbrana i resti, con le labbra
sollevate come quelle di un cane…”
È la penultima delle Lettere di compleanno che Ted Hughes ha dedicato, con violenta pietà, alla moglie, Sylvia Plath. La traduzione è di Anna Rovano; in libreria trovate soltanto il ‘Meridiano’ di Hughes (Poesie, Mondadori, 2008), meraviglioso ma inaccessibile – perché di alcuni autori non si stampino le poesie in versione economica è un tabù, un palafreno in bocca ai poveracci come me.
La poesia di Hughes, è vero, reagisce al regime dei pettegolezzi in atto, che si nutre di ‘personaggi’ annientando le opere. Nel caso specifico, c’è il suicidio di Sylvia Plath, le curatele coercitive dei suoi libri ad opera del marito – che l’aveva mollata per un’altra –, le porzioni di diario omesse (a tutela dei figli, dirà lui), i quaderni smarriti, le reticenze e gli scorni. Ci sono le liti, il fuoco, l’ambizione, la gelosia. Sylvia Plath è diventata, nei lustri, una divinità del pantheon femminista, la Kalì della poesia, fino a che la storia della bella americana di origine germanica, finita a uccidersi, ha sostituito la grande poetessa; l’emblema ha soggiogato il simbolo:
“L’hanno dissotterrata. Ora si ingrassano
con la cornucopia
del suo corpo. Arrivano a staccarne a morsi il viso dalla lapide,
a divorarne gli ornamenti sepolcrali,
a inghiottire la terra stessa”.
Sylvia Plath era stata sepolta a Heptonstall, nello Yorkshire, “dove abitavano i genitori di Ted Hughes”, non lontano da Haworth, la patria delle sorelle Brontë; il corpo di Hughes pareva quello, ciclopico, di un Heathcliff. Lui, piuttosto, si rivedeva nella figura del Centauro. Sylvia aveva ‘previsto’ la sua sepoltura in una poesia del 1956, November Graveyard, esito di una gita compiuta a Heptonstall con Ted nell’inverno di quell’anno; si erano sposati pochi mesi prima. Questa è l’ultima stanza (la traduzione è di Anna Ravano):
“Tu guarda fisso il paesaggio essenziale finché gli occhi
non impongano al vento una visione, abbacinante:
se mai spiriti perduti ululanti nel sudario
lampeggino attraverso la brughiera,
essi delirano al guinzaglio delle mente affamata
che popola la stanza spoglia, l’aria bianca e deserta”.
La poesia di Ted Hughes, vorrei dire, non è né un’invettiva né una difesa fuori tempo; nessun rancore ne lucida i pomelli. No. La poesia di Ted Hughes reca il formulario delle operazioni sciamaniche: è una poesia scritta per frenare l’ira del morto, per ricongiungere il suo spirito di pece e saggina alla pace. Lo si riconosce dai toni, che alternano il salmo biblico alla kamlanie, il rito dello sciamano che, attraverso parole precise, va a sedare l’ostilità dei morti – poesia apotropaica, questa, poesia che agisce, come altre di Hughes. Così dunque l’immagine finale, di scotennata potenza:
“E pensatela invece
distesa con sacra cura su un alto graticcio
perché gli avvoltoi
possano riportarla nel sole. Immaginate
quelle bocche trituratrici d’ossa come le bocche
che si affaticano per lo scarabeo
che le risospingerà nel sole”.
Qui il poeta riprende l’immagine delle dakhmeh, le “torri del silenzio” su cui i discepoli di Zaratustra elevavano i morti, lasciandoli al cospetto degli uccelli. L’avvoltoio – non l’aquila – è mediatore tra il corpo e il sole, purifica la materia, svelandone il bianco, l’estrema vetta della purezza. In questa poesia ‘a protezione’ Hughes sfodera simboli della tradizione egizia (scarabeo) e precolombiana (avvoltoio), creando, di fatto, un amuleto.
Credeva nell’azione dei morti, ne aveva timore. Lo spettro di Sylvia Plath, d’altronde, continuò ad agire a lungo, con imperterrita ferocia. Nel marzo del 1969, Assia Wevill, la donna con cui Ted tradì Sylvia, si ammazza, con il gas. L’anno dopo Hughes pubblica il suo poema più grande, Crow, tentativo – anche qui – di elevare il verso a giaculatoria magica; poesia che accoglie le bestie, che si fa bestia, mette il becco e gli artigli. Sylvia aveva pietrificato Assia in una poesia di tenebroso splendore, The Other, un anatema:
“Ho la tua testa sul muro.
Cordoni ombelicali, rossoblù e luccicanti,
urlano nel mio ventre come frecce, che io cavalco.
O luce lunare, o malata,
i cavalli rubati, le fornicazioni
girano intorno a un ventre di marmo.
Dove te ne vai
che risucchi l’aria come fossero miglia?
Adultèri sulfurei piangono in un sogno.
Freddo vetro, come ti inserisci
tra me e me.
Graffio come un gatto”.
La crudeltà – e parimenti la sua gemella: la dolcezza – opera con belluina grazia nel poetare di tutti.
Ted Hughes non giace vicino all’antica moglie; diede disposizioni affinché il suo corpo fosse cremato, le ceneri sparse nei recessi di Dartmoor, dove dicono che si aggirino folletti e misteriose belve. Aveva pubblicato il suo libro più noto, Lettere di compleanno, poco prima di morire – non poté godere di quel successo. Era un libro nuziale; Sylvia pretese a sé il poeta, il marito fedifrago. Probabilmente, Ted, lo sciamano, sapeva pure questo.
Uno dei testi più insoliti e puri di Sylvia Plath s’intitola Three Women: è un radiodramma in versi scritto per la BBC, tratta della maternità, alternando toni enfatici e d’ossessione. La Plath lo scrive di getto poco dopo la nascita del secondo figlio Nicholas; l’anno dopo sceglierà di rientrare nel ventre-forno, di uccidersi. Il testo viene trasmesso nell’agosto del ’62, il mese prima Sylvia si era separata da Ted. In Italia il poemetto trova un traduttore d’eccezione in Nino Pedretti, eccellente poeta di Santarcangelo di Romagna che si era laureato in lingue straniere con una tesi sulla “Poesia e musica negra d’America”. Il testo di Sylvia Plath viene pubblicato da Editrice Forum nell’agosto del 1977 come Tre donne. Poema per tre voci (è stato recuperato, tempo fa, da Raffaelli); ecco un frammento:
“Non c’è miracolo più crudele di questo.
Sono trascinata dai cavalli, dai ferri degli zoccoli.
Resisto. Resisto alla prova. Compio un lavoro.
Tunnel oscuro attraverso il quale arrivano con rumore le visite,
Le visite, le manifestazioni, i volti sorpresi.
Sono al centro di un’atrocità.
Quali pene, quali dolori devo partorire?
Come può una simile innocenza uccidere ed uccidere? Porta via il latte della mia vita.
Gli alberi avvizziscono nelle strade. La pioggia è corrosiva.
Ne sento il sapore sulla lingua, i fattibili orrori,
Gli orrori che stanno ritti e oziosi, le neglette madrine
Coi loro cuori che battono e battono, con le loro borse di instrumenti.
Sarò un muro e un tetto di protezione.
Sarò un cielo e una collina di bene: Lasciate che sia!
Un potere cresce in me, una vecchia tenacia.
Mi sto rompendo in due come il mondo. C’è questo buio,
Questo ariete di tenebre. Piego le mani su una montagna.
L’aria è spessa. È spessa di questo travaglio.
Io vengo usata. Usata come un tamburo.
I miei occhi sono schiacciati da questo buio.
Non vedo nulla”.
Un tempo pubblicato da Einaudi (Al vòusi) e da Mondadori (L’astronomo), Pedretti è autore ormai negletto oltre il circolo locale, romagnolo – sempiterna lode ai piccoli, grandi, tenaci editori come Raffaelli, allora. Eppure, la sua lunga Introduzione al testo di Sylvia Plath è uno dei passepartout più efficaci per capire l’opera della poetessa americana. Ne pubblichiamo un breve stralcio.
“Sylvia Plath per tutta la vita cavalcò la tigre della sofferenza e a trentuno anni finì la sua corsa. Il suo guaio umano fu di sfidare il male dell’esistenza, di scrutare il dolore con la stessa empietà con cui questo devasta le viscere. Uno sguardo di vetro il suo, ma dietro la fragilità di una fanciulla. È un po’ come guardare il sole, si diventa ciechi. Al colmo della lucidità saltano i nervi, la mente vacilla e cerca il buio…
L’inferno era bello e pronto per Sylvia Plath. Una madre rincantucciata nel suo mondo di piccola sopravvivenza borghese, il padre (o la sua immagine) nazista e morto quando lei aveva dieci anni, gli studi arrabbiati, un corpo magro e allungato, amicizie stupide, la solitudine. una vita della quale altri, adattandosi, sono vissuti meno male ed hanno perfino prosperato. Ma Sylvia Plath non voleva pagare alla vita il prezzo della banalità. La sua breve vita era segnata dal destino di scrivere che per lei era descrivere e conoscere. Nessuna grande poesia è forse consolatoria, ma poca poesia è così torturata come quella della Plath. La malattia nervosa, si sa, è una struttura di difesa, una struttura abnorme come una città inventata, piena di passaggi obbligati, di cunicoli. È stato anche scritto che l’arte è terapeutica, che il processo creativo sutura in qualche modo le lesioni che il mondo procura. Ma così non fu per Sylvia che continuamente scrostava la sua sofferenza per indagarla, per trarne una luce di senso. Direi che i suoi versi sono meravigliose piante acquatiche che crescono nel liquido amniotico del loro male. Il lettore, empaticamente, avverte la situazione in cui sono stati promossi, i sudori gelidi, le vampe cenestopatiche, l’oscura depressione vitale. Ma avverte anche la luce ferma, vivida e oppiacea, in cui l’immagine appare con chirurgica esattezza: l’orifizio della nascita, il feto nell’ampolla di vetro, lo scroto pendagliuto del maschio sgraziato. Ma in questo mondo clinico anche una stupenda tenerezza, un’attesa infantile, quasi un tremore di primavera per la speranza della vita”.
Nino Pedretti