Un secolo fa, nel 1920, Edna St. Vincent Millay, ragazza pronta all’audacia e al sogno, di astratta bellezza, pubblica A Few Figs From Thistles: non è il suo esordio (alcuni testi, insieme al poema Renascence, pura potenza – “Io vidi, udii, conobbi fino in fondo/ di ogni cosa il Come e il Perché:/ il passato, il presente e il per sempre” –, uscirono nel 1917), ma è il libro che la rende regina del Greenwich Village, la diva degli intellettuali scapigliati. Per via di quella poesia ambigua, spigliata, sul crinale della carne. Audace, appunto. L’anno dopo Edna fece il canonico viaggio a Parigi, diventò amica di Constantin Brancusi e di Man Ray, fu femminista, impegnata, conservando, nei versi, sempre, la misura lirica. Nel 1923 le capitò il Pulitzer, per The Harp-Weaver: aveva 31 anni, era la poetessa più nota & amata dei vorticosi Venti, scelse di sposare Eugen Jan Boissevain, ricco olandese che commerciava in zucchero e caffè, e che le consentì una casa in campagna, ad Austerlitz, New York, isolata, e diversi, avventurosi viaggi. “Come la sua poesia, così la sua morte sarà all’insegna di una tragica, ironica leggerezza: scivolerà dalle scale la notte del 18 ottobre 1950, con un bicchiere di vino rosso in mano, dopo molte ore dedicate alla rilettura di una sua traduzione dell’Eneide”, scrive Silvio Raffo, che delle Poesie di Edna è il gran traduttore. Una nuova scelta di versi – dopo l’edizione del 2001, L’amore non è cieco – è ora edita da Crocetti. Da lì, traiamo alcune poesie, falò in porcellana.
*
La belva che mi strazia ovunque io vada,
questa passione, questa obliosa brama
che mi soggioga al declinante autunno,
mi lascerò, saziata, in primavera.
Chiusa la piaga, sparirà la febbre,
in seno il cuore scioglierà il suo nodo;
prima che torni il picchio avrò scordato
il tuo sguardo, mio oriente e occidente.
Ma da un simile artiglio non sarò
mai più sicura, anche se amassi ancora:
lungo il mio corpo, vigile nel sonno,
tagliente al bacio, neve alla carezza,
come una spada questa cicatrice
fra me e il turbato amante resterà.
*
La notte è mia sorella, io nel profondo
dell’amore annegata, giaccio a riva,
acque e alghe a fior d’onda mi lambiscono,
mi ferirà la draga, e c’è di più:
lei, solo braccio teso dalla sabbia,
unica voce il cui respiro sento
a sgelarmi le nari, ad aprirmi la mano,
lei potrebbe avvisarti, se tu udissi.
Ma di certo è impensabile che un uomo
in sì dura tempesta lasci il quieto
focolare e s’imbarchi al salvataggio
di un’annegata per portarla a casa,
sgocciolante conchiglie sul tappeto.
Buia è la notte, e per me piange il vento.
*
Verrà il momento, polvere superba,
che a giacere con me sarai gettata.
Che sia il sangue fremente, o come ruggine
su un infranto congegno. E così sia.
Se non oggi, più tardi; se non qui,
sull’erba verde, in sospirosa ebbrezza,
al di sotto, da buone amiche, cara,
insieme dormiremo nella notte.
E, stanne certa, più violento e rude
che ogni ardore del corpo voluttuoso
sarà il bacio umiliante della tenebra
che alfine chiuderà l’altera bocca.
La morte non ha amici: presto o tardi,
torni a nutrire il drago con la luna.
*
Veglia i sentieri della mia passione
come notturna tenebra il pericolo.
Deserti intorno. Da me s’allontani
chi è come il bimbo che l’ombra atterrisce,
fugga da questo luogo infido dove
tremule, oscure e pallide le rose
ondeggiano nell’aria senza stelo
e raggela le mani la rugiada.
Chi è come il bimbo che non ha paura
del buio della notte, lui soltanto
rimanga qui, gli occhi d’amore ardenti,
scaldato dalla febbre delle vene
giaccia quieto con me, protetto dall’insonne
Bellezza e dalla sua tenera spina.
Edna St. Vincent Millay
*la traduzione di Silvio Raffo è tratta da: Edna St. Vincent Millay, “Poesie”, Crocetti 2020