La nuova biografia di Marco Antonio, edita da Salerno a firma di Giovannella Cresci Marrone completa e amplia il ritratto del personaggio presentato in un saggio di alcuni anni fa, che recava un significativo titolo: Marco Antonio. La memoria deformata (2013); questo Marco Antonio. La vita “inimitabile” del triumviro che contese l’Impero a Ottaviano rappresenta dunque il punto di arrivo di molti anni di studi dell’autrice, Professore ordinario di Storia Romana presso l’Università “Ca’ Foscari” di Venzia e autrice in passato di un volume che è un caposaldo per lo studio dei primordi dell’Impero, Ecumene augustea (1993).
Per fissare l’immagine negativa di Marco Antonio fu determinante la sua sconfitta ad Azio, nel 31 a. C., contro Ottaviano, e la conseguente damnatio memoriae che ne seguì: il provvedimento venne anzi varato per la prima volta proprio per il triumviro d’Oriente, e sarebbe stato cospicuamente applicato anche nei decenni successivi, per tutti quei personaggi sgraditi o sgradevoli al punto tale che, dopo la loro morte, le loro statue venivano distrutte e il loro nome cancellato da tutte le epigrafi e iscrizioni pubbliche. Così accadde ad Antonio: la sua morte per suicidio, il 1 agosto del 30 a. C., fu l’epilogo di una parabola politica esaltante, conclusa però da una devastante sconfitta militare che lasciò Ottaviano padrone dell’impero. La vittoria di Ottaviano di Azio viene celebrata da Orazio nel carme I, 37, dove però Marco Antonio non viene, significativamente, mai nominato: la scena poetica è occupata da Cleopatra, la regina, dapprima presentata con lo stigma della mollezza, della follia, dell’ebbrezza, e che poi, via via, nei versi del componimento, acquisisce una sua grandezza (deliberata morte ferocior, “resa più fiera dalla decisione di morire”, la dice il poeta). Di Marco Antonio, nemmeno l’ombra.
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Cassio Dione (XLVIII, 41, 7) non è certo tenero con il triumviro d’Oriente e con il suo comportamento ad Azio; scrive infatti: “Marco Antonio dimostrò chiaramente di non comportarsi né da capo né da uomo e di non essere in grado di agire razionalmente, ma – come qualcuno disse scherzosamente che l’anima di un innamorato vive in un corpo altrui – di farsi trascinare da quella donna (scil. Cleopatra), come se fosse unito a lei e si muovesse con lei. Infatti, appena vide allontanarsi la sua nave, dimentico di tutto, tradendo e abbandonando coloro che combattevano e morivano per lui, si trasferì su una quinquereme, accompagnato soltanto dal siro Alessa e da Scellio, e seguì colei che l’aveva già rovinato e avrebbe finito di rovinarlo”.
Il penchant insopprimibile per il gentil sesso, la smodatezza nei piaceri – vino e sesso –, la propensione per i gesti teatrali, di grande effetto, la curiosità entusiastica per l’Oriente, tutto questo costò caro a Marco Antonio. Nello scontro con Ottaviano, che, prima ancora che militare, fu scontro ideologico, fra l’Occidente – sobrio, frugale, custode del mos maiorum – e l’Oriente, associato alla ricca mollezza e alla debosciatezza, si replicava quello scontro ideologico fra Occidente e Oriente, all’insegna del quale gli storici antichi, Erodoto in primis, hanno codificato la storia delle Guerre Persiane. Non giovò nemmeno ad Antonio il fatto che, come era invalso ormai da decenni, ognuno dei contendenti per la supremazia, in quei difficili decenni di contrasti intestini si affidasse alla protezione di una divinità particolare, finendo per identificarsi con essa, come fecero Silla con Fortuna e Pompeo con Nettuno; e, appunto, Ottaviano si identificò con Apollo, mentre Marco Antonio con Dioniso. La cosa, decisamente, si ritorse contro di lui. L’associazione con questo dio venne messa in relazione con la sua propensione per l’ubriachezza, che gli restò appiccicata addosso come uno stigma soprattutto a partire dal terrificante ritratto che Cicerone dà del personaggio nella II Filippica. Qui Marco Antonio è infatti presentato come un ubriacone inqualificabile che si presenta nella Curia vomitando pezzi di cibo della sera prima (amplificazione, questa, di uno sfortunato accadimento, avvenuto quando, il giorno successivo a una festa di nozze, Marco Antonio, che aveva ecceduto nel bere, vomitò in pubblico).
Del resto, Antonio avrebbe anche scritto un pamphlet in favore dell’ubriachezza, opera andata perduta nel naufragio delle sue opere. Scritto probabilmente in risposta a un’operetta che riprendeva le accuse ciceroniane di ubriachezza, il pamphlet antoniano le rintuzzava. Ne conserva una testimonianza Plinio il Vecchio (Naturalis Historia XIV, 147-48, qui p. 174), che però attinge da fonti retoriche fortemente ostili a Marco Antonio: “Costui infatti aveva prima di lui (ovvero: il figlio di Cicerone) gelosamente tenuto la palma (cioè il primato nel bere) e aveva anche pubblicato un libro sulla sua ebbrezza in cui, osando giustificarsi, egli ha messo in chiara evidenza quali terribili mali avesse arrecato al mondo intero a causa della sua ubriachezza. Poco prima della battaglia di Azio vomitò quel libello, dal quale si capisce facilmente che, ebbro ormai del sangue dei concittadini, ne era tanto più assetato”.
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Ad Alessandria, con Cleopatra, Antonio aveva dato vita a un tiaso, dei “viventi inimitabili” (da qui il sottotitolo del volume: come vediamo D’Annunzio non aveva inventato nulla), che poi, dopo la sconfitta di Azio, venne sciolto e trasformato nel tiaso dei “Compagni di morte”: gli associati intendevano morire insieme, ma, prima del gesto definitivo, intendevano trascorrere il tempo restante banchettando in letizia fin quando possibile. Nel tiaso avvenivano sbrigliatezze che poco avevano a che fare con il mos maiorum, di cui, al contrario, Ottaviano si mostrava pubblicamente, coadiuvato dalla consorte Livia, geloso custode. Eppure, una lettera privata (conservata da Svetonio, Aug. 69, qui p. 164) di Marco Antonio a Ottaviano, di cui era anche cognato (avendone sposato la bella e virtuosa sorella Ottavia), sembra aprire uno squarcio diverso sulla moralità del triumviro d’Occidente, destinato a ricevere di lì a pochi anni il titolo di Augustus: “Ma che cosa ti ha cambiato? Il fatto che mi godo una regina? È mia moglie! Ma non è da nove anni che ce l’ho? Tu vai solo con (Livia) Drusilla? Ti auguro ogni bene se, quando leggerai questa lettera non sarai andato anche con Tertulla e Terentilla e Rufilla e Salvia Titisenia e tutte le altre. Importa dove e con chi tu faccia l’amore?”. La polemica aveva ragioni molto lontane: già Cicerone aveva sottolineato a partire dal 43 le virtù private del giovane Ottaviano (che egli sperava di poter manovrare in funzione anti-antoniana), dipinto come un giovane probo, casto e morigerato; certamente circolavano in realtà notizie sui suoi adulteri e su comportamenti privati poco edificanti, spiegati dal solito Svetonio (Aug. 49) riportando le giustificazioni degli amici del princeps, i quali non negavano, nemmeno loro, i suoi adulteri, insinuando però che si sarebbe trattato di una mossa dettata da calcolo e da astuzia, perché l’intimità con le mogli dei suoi avversari gli avrebbe consentito di interrogarle, carpendo i segreti di quanti tramavano contro di lui. Come è contrario questo comportamento rispetto a quello di Marco Antonio! Nel suo tiaso, infatti, si celebrava apertamente la gioia di vivere, ed esplicita era la ricerca della felicità e dell’appagamento, anche momentaneo, a dispetto del mos maiorum: fece infatti scandalo che, in quell’ambito, in una occasione conviviale, un personaggio di rilievo come il governatore Lucio Munazio Planco si esibisse, nudo, interamente dipinto di blu e con una finta coda dello stesso colore, in una performance di danza ritmata che voleva essere allusiva del dio marino Glauco (Velleio II, 83, 1-2; qui p.154).
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Antonio con le sue cinque mogli (l’oscura Fadia, la cugina Antonia, Fulvia, vedova di Clodio, considerata l’antimodello della matrona perbene, Ottavia e Cleopatra, e senza dimenticare il lungo intermezzo con la mima Citeride, decisamente disdicevole per un romano che ambisse agli alti gradi della politica), dimostra invece tutta l’esuberanza di un modello di politico e di uomo il quale, con i suoi atteggiamenti, dimostrava anche come, nei suoi intenti, potessero convivere molti atteggiamenti, usi e costumi nell’Impero: non solo la toga, emblema della Romanità trionfante, ma anche la lacerna, il mantello con il cappuccio, tipicamente gallico, sfoggiato nella Gallia Cisalpina, e poi il pallio indossato in Grecia, e da ultimo l’abbigliamento orientale che Antonio aveva cercato di legittimare. Eppure, dalla numerosa discendenza di Antonio (sette figli da tre mogli) discese più di un imperatore. E anzi, nella conclusione della biografia, G. Cresci Marrone si chiede se non si possa dire che questo anti-modello non abbia riportato una vittoria postuma: Caligola, per esempio, odiava Augusto, e, invece, si vantava di discendere da Marco Antonio. Già il padre di Caligola, Germanico, aveva del resto, nel suo viaggio in Oriente, seguito le memorie antoniane, ricavandone la tristezza per la parabola del nonno. Ma, forse, il più simile a Marco Antonio fra i componenti della casata Giulio-Claudia fu Nerone: anch’egli, infatti, non rifuggiva dagli eccessi, amava mescolarsi al popolo (proprio come Antonio faceva con Cleopatra nelle notti alessandrine), era affascinato dall’esotismo e dalla ritualità dei magi.
Tuttavia, la sensibilità nei confronti delle esperienze provinciali e la valorizzazione delle realtà orientali care ad Antonio, si consolidarono soltanto con il tempo: la piena integrazione della pars Orientis fu il preludio ineludibile per la nascita, nel 330 della “nuova Roma”, Costantinopoli, che perpetuò l’eredità dell’Urbe ben oltre la caduta dell’Impero d’Occidente.
Silvia Stucchi
*In copertina: Marlon Brando è Marco Antonio del “Giulio Cesare” di Joseph L. Mankiewicz del 1953