08 Giugno 2020

“Quasi ci fosse del merito a morire”. Charles Dickens, ovvero: sul potere della tradizione. (In UK esce l’ennesima biografia: meglio leggere i giudizi di Larkin e Greene)

Il soggetto è drammatico già di suo: un uomo, Charles Dickens, di razza bianca inglese, che a 23 anni ha la forza di comporre Pickwick e che è già sposato e ha scontato da ragazzino i lavori forzati non per colpa sua, ma per una condanna inflitta al padre latitante. Il mondo inglese dove nasce Dickens, dopo Waterloo, è stremato: cosa che i giornalisti inglesi oggi stentano a riconoscere. È la famosa ipocrisia, una forma sottile di menzogna che consente anche e soprattutto di mentire a se stessi. Di qui il successo e il plauso di cui godono gli argomenti di spionaggio nella loro letteratura, pane quotidiano dell’informazione.

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Dickens fa la galera da ragazzino, incomincia a scrivere in modo torrenziale dopo le prime prove di Nicholas Nickleby e poi ingrana in modo originale a 23 anni con Pickwick. Quando avevo io 23 anni nelle vie parallele intorno la stazione di Porta Nuova, una passeggiata kafkiana di pomeriggio ad agosto mi faceva sentire una carogna fradicia perché accumulavo vita e orrore senza riuscire a far nulla che fosse all’altezza di Pickwick: né, va da sé, riuscivo a leggerlo.

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Gli inglesi risarciscono i loro debiti di maltrattamenti sociali scrivendo, ogni anno che dio manda in terra, una biografia di Dickens. L’ultima è una buona narrative, una grande storia composta con l’ausilio di fonti secondarie. Il giornalista del progressista Guardian che ne ha dato notizia pochi giorni fa, ha rimarcato questo fatto snocciolando le considerazioni di Larkin su Dickens. Traduco qui: “Dimmi, cara Monica, dimmi tutto quel che vuoi su Dickens perché ci diverte, ma non lo possiamo considerare per nulla come uno scrittore. Il suo è un melodramma lurido, ostentato e illuminato a gas – melodramma da fienile con ampio spazio per i suoi villici. Ma comunque rileggendo Grandi speranze me la sono goduta e continuerò a leggere le altre cose sue”.

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Parentesi. Che bello sarebbe se anche noi avessimo uno scrittore stagionato da più di un secolo al quale fare continuo riferimento, che figata sarebbe poter elencare come amici i suoi personaggi in un articolo di giornale come fanno gli inglesi quando parlano degli zii e dei cattivoni nei romanzi di Dickens… Questa si chiama tradizione. Una cosa che consente di passare con disinvoltura dall’Otto al Novecento e di saltare, come si fa su Guardian, da Dickens a Larkin in men che non si dica. Anche perché ora c’è una Larkin Renaissance e verranno fuori le lettere di Monica a Larkin. Quelle del poeta sono già pubbliche: salienti, ad alta gradazione. Ne riparleremo: intanto beccatevi questa considerazione che faceva su Yeats, ne parla come di un amore da ventenne, da sala comune in college, una mascotte: “Yeats era solo una cosa ovvia, eccoti accontentata. Avevo un grande amore per lui tra i 21 e i 22 anni che da allora è considerevolmente svanito. Ora non riesco a sopportare l’atmosfera fervente e irreale di tutti quei suoi modi, le sue storie da vecchio saggio, la sua arroganza – è la vera e propria antitesi di Lawrence & Hardy. Comunque, sa scrivere.” (10 ottobre 1950).

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Questa battuta su Larkin era d’obbligo per capire il senso di un articolo che per parlare di Dickens parte da altre citazioni. E Dickens? L’articolo racconta cose note e tuttavia affascinanti: dopo 22 anni di matrimonio, arrivato al decimo figlio, Dickens mette un punto fermo alla relazione, porta in scena un’opera teatrale e cade innamorato della sua primattrice diciottenne. Per lei arriverà a divorziare. Come direbbero oggi, senza pagare gli alimenti alla prima moglie.

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Cose note. Il biografo ci marcia sopra e stampa un libro da 18 sterline. Il giornalista si sdilinquisce: “Quando Dickens ci restituisce il terrore abietto e senza speranze della sua gioventù, con quella lieve risata, è un romanziere ipocrita che s’inganna ma ci fa una gentilezza senza paragoni”. E ci informa sull’ultimo meeting con l’attrice che fa venire il crepacuore a Dicken. La cosa non è impossibile, Dickens morì a soli 58 anni. Ma su quella morte favoleggiano tutti: Fruttero & Lucentini composero un giallo dove l’assassino risultava essere l’amico-rivale Wilkie Collins, in veste di avvelenatore. Per dire…

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Tutti s’imbambolano con la fama a chiaroscuro di Dickens anche perché il suo ultimo romanzo, Il mistero di Edwin Drood, è incompiuto: di qui il fiorire di biografie come quella discussa oggi, Il mistero di Charles Dickens. È l’ennesima conferma che un’epoca incapace di produrre grandi uomini e grande scrittura può solo rimuginare gli aneddoti e i divorzi dei giganti che l’hanno preceduta.

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Ora, a costo di farmi fucilare dal direttore nominando ancora una volta Graham Greene, concedo a lui l’ultima parola su Dickens: “Un critico deve evitare di finir prigioniero del proprio tempo e se vogliamo apprezzare un libro di Dickens dobbiamo dimenticare la lunga fila di libri sullo scaffale, tutti intesi a soffocare la grandezza dello scrittore con gli scandali e le controversie della sua vita privata (…) Non so se quando Dickens aveva 24 anni, alla vigilia di Pickwick, ed era autore di sketch giornalistici e operette comiche, ci sarebbe stato un avventuriero, un Cortez letterario in grado di mettersi sugli scaffali uno dei suoi libri. Poi improvvisamente la popolarità e la fama. La fama è come una mano morta che si appoggia sulla spalla dello scrittore, ed è bene per lui che ci si appoggi più tardi possibile nella sua vita. Quanti al posto di Dickens avrebbero sopportato quel che James ha chiamato ‘il grande contatto corruttore col pubblico’, la popolarità fondata, come sempre accade, sulla debolezza e non sulla forza di un autore?”.

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E ancora: “Il giovane Dickens a 25 anni aveva toccato una mina che gli pagò un terribile dividendo. Oliver Twist si rivelò un libro senza forma precisa e per questo ebbe successo, con quei passaggi in prosa che influenzarono Proust dove c’è solo una mente che parla a se stessa. Il suo mondo era senza Dio; al posto del potere e la gloria dell’onnipotente e onnisciente, solo pochi riferimenti a paradiso, angeli, dolci visi di defunti e, come dice Oliver, ‘Il paradiso è davvero distante e lassù sono troppo felici per scendere qui sotto a fianco del letto di un povero ragazzo’. In questo mondo manicheo possiamo credere nell’opera del maligno, mentre il bene appassisce in filantropia, gentilezza e in quel vago languore dove precipitano così frequentemente le giovani donne di Dickens – il bene agli occhi dello scrittore assomiglia a un lasciapassare per la virtù, quasi ci fosse del merito a morire”. Così Greene nel 1950, Young Dickens. Un testo sempreverde, e forse siamo noi i morti che camminano e sparlano di uno scrittore e della sua attrice. (Andrea Bianchi)

 

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