Vivere o no “alla Sanin”? Detto così oggi non vuol dire niente, ma agli inizi del Novecento questa era una domanda che in Russia si sentiva spesso. D’accordo, grazie dell’informazione, ma che cosa voleva dire? Facciamo un po’ di chiarezza.
Sanin è un romanzo dello scrittore russo Michail Petrovič Arcybàšev. Al momento della sua pubblicazione, 1907, fece scandalo per i temi che affrontava: l’amore libero e il suicidio. A colpire furono soprattutto le descrizioni degli amplessi tra i vari personaggi, per cui venne bollato come scandaloso e persino pornografico, tuttavia ebbe un grande successo e lasciò un segno molto profondo su un’intera generazione, quella dei giovani dell’epoca.
Arcybàšev (1878-1927), nato a Charkov in Ucraina, fu autore di racconti, commedie e di un altro paio di romanzi, segnati da una profonda vena di pessimismo e da uno scarso successo. Dopo la rivoluzione del 1917 le sue opere vennero proibite e lui se ne andò in esilio a Varsavia, dove prese la cittadinanza polacca e diresse un giornale antisovietico. La sua fama resta legata a Sanin, un libro criticato dai conservatori per la sua immoralità e dai progressisti per il suo scarso valore letterario. Bene, e allora diciamolo subito forte e chiaro: sia gli uni sia gli altri avevano torto marcio. Le scene che al tempo potevano essere considerate hard ormai sono più che soft, quanto alla qualità letteraria Arcybàšev è un degno erede dei grandi russi dell’Ottocento, leggendolo si capisce che ne ha assimilato la lezione fino in fondo.
Sanin oltre a essere il titolo del libro è anche il nome del protagonista, un giovane cinico, sprezzante, amante dei piaceri e delle donne, dispregiatore delle finezze intellettuali fini a se stesse nonché di qualsiasi credo, politico o religioso che sia.
«Abbiamo bollato come bestialità i desideri della carne, abbiamo iniziato a vergognarcene, li abbiamo vestiti di un abito umiliante e ci siamo costruiti un’esistenza unilateralmente improntata al solo spirito».
La sua filosofia di vita istintiva, amorale, tutta votata all’hic et nunc passa come un bulldozer sopra le esistenze degli altri: da quella del militare Zarudin che si suicida di fronte all’arroganza di Sanin, che si fa beffe della sua sfida a duello e lo schiaffeggia pubblicamente, a quella dell’idealista socialrivoluzionario Solovejcik che quando Sanin gli dice in faccia: «Chi non vede nella vita qualcosa di piacevole, è meglio che si uccida» decide di impiccarsi. Per non parlare di Jurij, il vero antagonista di Sanin, per molti versi il suo alter ego. Un giovane intellettuale irresoluto e deluso dal suo tempo, incapace di affrontare la vita, sia nei suoi aspetti più importanti sia in quelli minimi, e che finisce per spararsi un colpo di pistola per non andare a pranzo con i familiari. Nell’ottica strafottente di Sanin sono tutti uomini superflui, i loro valori appartengono al rumore della vita non alla vita.
Quanto alle donne, e nel libro ce ne sono diverse, per Sanin rappresentano uno strumento per soddisfare il suo piacere. Dalle ragazze che ama spiare di nascosto mentre fanno il bagno nel fiume, all’affascinante Karsavina che seduce in barca dopo averle tenuto un sermone sul libero amore. Sanin è arrogante, sfrontato, insolente, appare mosso da una sua forza interiore primitiva, qualcosa che sembra arrivare dalla notte dei tempi come bene testimonia una scena del libro:
«La figura della ragazza si dissolse e perse nella nebbia che già andava incontro all’alba. E quando non fu più in vista, Sanin balzò con forza nella barca, e l’acqua riprese a sciabordare sotto i colpi trionfanti dei remi. Arrivato al largo, in mezzo ai banchi ondeggianti della nebbia, sotto il cielo mattutino, Sanin gettò i remi, si alzò di scatto in piedi, e gridò con tutte le sue forze, un grido lungo di gioia che si smorzò solo quando non ebbe più fiato».
Un libro che è stato visto come una risposta alla fase storica che la Russia stava attraversando. Un periodo di cambiamento politico che veniva subito dopo il fallimento della rivoluzione del 1905, che aveva tradito le grandi aspettative di intellettuali, scrittori e filosofi, svelando il lato oscuro dell’autocrazia e spingendo molti giovani alla disillusione totale. È certamente così, ma è una visione riduttiva del romanzo, che a più di un secolo dalla sua uscita mantiene intatta una notevole forza magnetica.
Al di là degli aspetti contingenti, Sanin è un libro magnifico perché ha le stimmate di quello che viene definito un “classico”. Da una parte è un ritratto della modernità che fa a pezzi il vecchio mondo delle ideologie, dei dogmi religiosi e politici e, a suo modo, prefigura un mondo nuovo: meccanico, gelido, razionale. Ma nello stesso tempo assume un valore universale nel presentare lo smarrimento che, in ogni luogo e in ogni epoca, segue alla fine delle illusioni giovanili. Quella fase di passaggio in cui ci accorgiamo che il mondo, e soprattutto gli uomini, sono quello che sono e tutti i tentativi di cambiarli si rivelano fragili utopie, a volte ridicole molto spesso tragiche, e comunque sono destinate a naufragare miseramente. Noi restiamo lì attoniti, inebetiti, senza sapere come affrontare un futuro che ci sembra tanto sterminato quanto inutile ed è allora che nella nebbia del nostro turbamento si fa luce una domanda: vivere o no “alla Sanin”?