14 Giugno 2024

“Il mio cuore è tra gli scomparsi astri”. Saint-Denys Garneau, il poeta che rifiutò la poesia

Il libro si aggira in una sorta di samizdat dell’intelletto – certe cose non devono essere lette, non devono essere dette.

Così, qualcuno – anima pia, angelo in demenza, figura lontana dai lucori faine di questo tempo, di luce che annerisce – mi mette in tasca Catena di fuoco. Bellissimo titolo stampato nel 1999 nella bellissima collana “I Mistici” curata da Marco Vannini per Mondadori. Uscirono, tra gli altri, in edizione economica, autentici libri-stiletto, testi di Edith Stein e di Enrico Suso, di Maddalena di Spello, di Angelus Silesius, di Cusano e di Isacco di Ninive – la collana durò l’arco di trentadue testi, fino al 2001; oggi si trova nel mercato sotterraneo.

Catena di fuoco è il diario di un’anima in pena, in lotta con se stessa. Arduo, qui, diradare a norma il misticismo; c’è un uomo, poco più che ragazzo, che si rade al suolo, tortuosa tonsura del sé:

“Il problema resta complesso. Nel senso che l’abbandono delle mie chimere, della mia posizione insostenibile lo imposta con ancora maggiore semplicità, lo denuda. Si tratta di sapere come fare per vivere. C’è qualche occupazione possibile? Interiore, o solamente esterna? Di questo secondo tipo, non ne vedo nessuna in un prossimo futuro. Quanto a occupazioni interiori, mi sento così desolato, devastato, che non ne posso progettare. Quello che rimane è uno stato di attesa. Ho la vocazione al deserto?”

L’addestramento non ha mediatori. L’autore scopre il Dio-Dedalo, il Dio labirintico nel dramma letterario. Varca il portale Baudelaire, per dire:

“Ed ecco l’essere che amo soprattutto in Baudelaire. Quell’essere schiacciato, battuto, flagellato, che ha bevuto tutto il dolore e l’ha infine compreso, senza ribellarsi, quel dolore difficile e tanto amico, che l’ha capito, e attraverso il quale egli ha trovato l’anima, il luogo dello spirito, non dell’intelligenza, ma dello spirito, che è arrivato alle porte dell’anima e ha taciuto, ma alle porte del cielo, vinto da ogni parte e infine disponibile per Dio”.

E poi, dunque, Dio, sorpreso nella glaciale solitudine:

“Dio conosce gli uomini meglio di noi. Sa che talvolta è pericoloso per loro sapere, se non sono pronti ad accettare. Ed Egli li prepara a lungo, e li umilia a lungo, senza fretta. Egli sa come condurci e dove. Noi non sappiamo. Abbiamo bisogno di lunghissime riflessioni per sapere che cosa Egli fa dentro di noi. Come possiamo sapere che cosa fa negli altri?”

Hector Garneau, l’autore di quel diario che costituisce un on the road nello spirito, nato a Montréal nel giugno del 1912 da famiglia d’antico lignaggio, mutò il nome in Saint-Denys Garneau per ancorarsi alla stirpe – nel Seicento un avo del ramo materno ottenne il privilegio di una signoria “de Saint-Denys” – e per marcare una distanza dai dettami del suo tempo. L’infanzia nei boschi ne forgia il carattere solitario, da ‘anarca’; Saint-Denys Garneau è bello, ha lo sguardo dell’estatico e dell’agonista, eccelle negli sport. A Montréal si iscrive all’accademia di belle arti: i quadri hanno tenue tenacia, diafana tintura. Tutto nella vita di questo ragazzo è apollineo: la veggenza, la ferocia della luce, illecita, la vocazione alle vie radicali.

L’indole di Saint-Denys Garneau trova corona in un libro in versi, Regards et jeux dans l’espace, uscito nel 1937 a Montréal: ventotto poesie che costituiscono una novità per la poesia canadese francofona. “Con Saint-Denys Garneau ha inizio in Québec la poesia moderna, con le sue forme – svincolate dalla rima, dall’alessandrino, dal sonetto – e con i suoi contenuti – autonomi rispetto alla Francia, e anzi pienamente ancorati alla realtà del continente americano” (Marina Zito). È una lirica, quella di Saint-Denys Garneau, istoriata sull’acqua, che sta tra Thoreau e Monet, di sottile tessitura; ha l’invisibile della tela del ragno: ciò che appare cristallino, è una trappola, invischia nella mota del predatore. È poesia di parole prime, tesa al ladrocinio del silenzio. Vi è inscritta l’inquieta ricerca del poeta: parola che s’intende fogliame; Dio remoto tra i rami.

Per un po’, Saint-Denys Garneau partecipa all’attività dei giovani letterati canadesi, di cattolica statura. Sedicenne, gli diagnosticano una fragilità del cuore – che è poi, per dilatato falò, malattia dell’anima. Quell’unico libro in versi, negli anni, diventerà, come si dice, ‘di culto’, miliare; alcuni non lo capirono, il poeta si inabissò in un cupo vagabondaggio. Amava Pierre Reverdy, un viaggio compiuto in Francia – di cui ricorderà Lourdes e Chartres – lo lascia pressoché indifferente: a 25 anni il ragazzo riconosce l’inutilità dei circoli letterari, l’ipocrisia degli ordini costituiti; è in un vicolo cieco. Ritirarsi nella casa di famiglia, a Sainte-Catherine, a visione di bosco, pare il vero compimento dell’opera: il diario – pubblicato con enfasi nel 1954 – narra la scelta dell’estrema spoliazione:

“Ci sono le vetrate che ho visto in Francia e ci sono le foglie in controluce. Gli alberi fanno vetrate ineguagliabili per lo splendore e la pienezza del colore”.

Un dire che sconfina in abisso:

“Senso del dolore. Ma perché il dolore acquisti senso, bisogna che esso sia elevato a un significato metafisico. Noi l’abbiamo conosciuto abbastanza per sapere che vuol dire. Non è il caso di continuare sempre a ricercarlo. Lì comincia a entrare in gioco l’orgoglio”.

Saint-Denys Garneau, il pioniere della poesia canadese, non scriverà più un verso, non pubblicherà più nulla. Si ritira nell’eremo del verbo. “Non possiamo dissociare la potenza dell’opera di Saint-Denys Garneau dalla ferocia con cui ha rigettato la propria poesia e ha voltato le spalle alla letteratura. Questo atto, senza precedenti nella nostra storia letteraria, non ha perso nulla del suo potere enigmatico. Come è riuscito un poeta così dotato, così profondamente coinvolto nell’avventura del linguaggio, a distaccarsi dalla poesia in modo così radicale?” (Michel Biron).

Il poeta muore d’infarto il 24 ottobre del 1943, mentre era in canoa. Amava dormire in tenda – quando doveva definire il suo cuore, usava la metafora della tenda: a volte, il vento dona a quello straccio l’entità del volo, la natura del falco.

***

Febbre

Ricomponi il fuoco
dalle ceneri

Attenzione
non ne conosci
le macerie

Attenzione
sai fin troppo bene
che tra le macerie
basta il minimo soffio
perché s’involi il fuoco

Nell’intimità dei boschi
il fuoco risorge
subdolo
e cresce più forte

Attento
il fuoco è in marcia
brucia il vento al suo passare

Il fuoco è in marcia
ma dove si muove
tutto si distrugge
la maceria diventa
scarto ben costruito

Il caldo scoppia
il vento brucia
l’ardore monta
e buca il cielo

Lordura di luce
sordità del caldo
che mi arde mi torchia

Il caldo si riscalda
senza chiarore di fiamma
il caldo aumenta
senza stendardi
s’incava il cielo
tremano i tronchi
il vento si inchina

Domanda grazia
al suo passare
le bestie hanno occhi terrorizzati
gli uccelli si disperdono
nel caldo che annienta il cielo

Il vento non ha valico
verso i grandi alberi che soffocano
aprono le braccia
per un po’ d’aria

Domanda grazia al suo passare
intollerabile caldo
fuoco che rinasce
dalle macerie
non ha alcuno spiraglio
un dono per la fiamma
per il vento

*

Riviera degli occhi

Grandi come fiumi i miei occhi, stamane:
l’onda prensile, pronta a riflettere il tutto
e questa frescura sotto le palpebre
straordinaria
allenta le immagini che fisso

come un rivo l’isola rinfresca
mentre i flutti scontornano
la bagnante sole.

*

Vado a scoprire altrove i poeti
quelli che vivono oltre questa piccola vita
andrò a scovarli tra i rigagnoli del mondo
nella vita-e-morte di tutti
dove tutti seminano fughe sul sentiero
ma non a casa mia, vi prego.

Questa è la cosa chiamata veglia:
abbattere l’universo intero
davanti a me e ricostruirlo
che straborda dai potentati.

*

Questa sedia non è comoda
e sto peggio sulla poltrone dove
immancabilmente mi addormento, muoio.

Concedimi di attraversare il torrente sulle rocce
come un colosso, scambiando una cosa per l’altra
certo dell’imponderabile equilibrio tra le due:
dove non c’è sostegno alligna la quiete.

*

La gabbia

Gabbia d’ossa
con uccello

Un uccello in gabbia:
la morte fa il nido

Se non arriva
odi il frullio delle sue ali

Dopo aver riso
ci blocchiamo
e lo sentiamo tubare
infine
è una campana

Uccello prigioniero
morte in gabbia

Vorrebbe volare
ma tu lo trattieni
io sono
chi è

Non può andar via
se non dopo aver mangiato
tutto il mio cuore
la fonte del suo sangue

Il suo becco
già ne pregusta l’anima

*

Cammino al fianco di una gioia
di una gioia che non è mia
di una gioia di cui non posso impossessarmi

Cammino al fianco di una gioia
e il mio passo marcia gioioso vicino a me
ma non posso cambiare marciapiede
non riesco a marciare su questi tratturi
e dire che sono io

Questa compagnia mi rende felice
ma organizzo in segreto dei patti
e ogni sorta di operazioni, di alchimie
con trasfusioni di sangue
e dileggio gli atomi
con giochi di equilibrio

Infine, un giorno, risolto,
penetro nella danza di questa gioia
con il decrepito suono dei miei passi
dopo aver perso il senso della marcia
svanisco alla mia sinistra
sotto i piedi di uno straniero
che prende una via trasversale.

*

Il loro cuore è altrove
in cielo, forse,
errano e ci attendono
ma il mio cuore è tra gli astri scomparsi
distante da qui:
attraversa la notte con un grido che non odo
quale dramma si svolge così lontano
non voglio saperne nulla
preferirei essere un giovane morto
vorrei perdere tutto.

Pe sconfiggere il firmamento
per la tenue trama della terra
questo è ciò che devi
sapere riguardo al nostro viaggio.

*

Voglio che la mia casa sia aperta
per dare rifugio ai poveri.

La aprirò a tutti
come chi ricorda
di aver sofferto a lungo
assalito da tutte le morti
rifiutato da tutte le porte
morso dal freddo, logorata la speranza

Annientato dall’audacia della noia
esasperato da una tenace ispirazione

Ancora impetro il perdono
ancora vado a caccia del peccato.

Saint-Denys Garneau

Gruppo MAGOG