05 Ottobre 2021

Amore & Nulla, con un pugnale nel cuore. Un testo di Roger Nimier, il ribelle

Roger Nimier è l’autentico ribelle della letteratura francese. Figlio di buona famiglia, nato a Parigi nel 1925, è il perno dei “Les Hussards”, gruppo di scrittori diversamente eccellenti – Michel Déon, Atoine Blondin, Jacques Laurent –, in opposizione ai diktat sartriani, dediti alla schiettezza acrobatica dello stile, alla postura impertinente. Fu irreggimentato tra gli Ussari, appunto, Nimier nel 1945; scrisse romanzi di fatale bellezza – Les Épées, Histoir d’un amour, Le Hussard bleu –, divenne autore, lettore, collaboratore di Gallimard, si ritirò tra le volute di un nobile silenzio. Coltivava l’estro per la contraddizione, Nimier. “Lei è il solo che ci libererà dalla truffa dell’impegno”, disse di lui François Mauriac: promosse la pubblicazione degli ultimi libri di Céline e la sua piena rivalutazione critica; aderì all’associazione degli amici di Robert Brassilach, firmando un omaggio sulla rivista dell’estrema destra “Défense de l’Occident”; diede degno spazio ai libri di Jacques Chardonne e di Paul Morand, autentici maestri di stile falciati dal collaborazionismo con Vichy. Fu, a tratti, monarchico, a tratti anarca. In Italia lo si è letto per caso, di sbieco: Histoire d’un amour e D’Artagnan innamorato sono in catalogo Longanesi, mai più ristampati; nel 2002 Meridianozero ha pubblicato Le spade, piccolo gioiello ora scomparso nei meandri delle bancarelle; nel 2018 Thoeria pubblica L’ussaro blu. Scrisse per il cinema, Nimier: nel ’53 collabora con Michelangelo Antonioni per la stesura de I vinti (con Diego Fabbri e Giorgio Bassani), è importante il sodalizio con Louis Malle. Stava lavorando all’adattamento di Feu follet di Drieu la Rochelle per lo schermo, appunto, quando, nel tardo settembre del 1962, si schianta al volante della sua Aston Martin DB4. Amava le belle automobili e la velocità; aveva 36 anni. Amour & Néant, di cui si propongono alcune pagine in traduzione, esce per Gallimard nel 1953: “Si ipotizza, qui, una filosofia che sostituisca l’Essere con l’Amore e il Non-Essere con il Nulla. Di tali estremi, eguale è il pericolo: l’esistenza ne è pregna e prigioniera più di quanto possiamo immaginare”.

**

Amour & Néant

Nelle famiglie, non accade mai nulla. Non ci si fanno domande su un mondo che non esiste. Ma tutto è tanto vero da consacrare un’abitudine, è sufficientemente falso da frenarci. Dovremmo, in un certo senso, ammirare questo equilibrio.

Al posto di cercare l’innocenza in un paradiso perduto, si accontentato del posto dove Dio l’ha messo: è questo il privilegio della maggioranza degli uomini. Costoro non avanzano nella vita con uno specchio nella mano destra e un pugnale nel cuore. Non sono felici né infelici, tutte queste parole gli appaiono eccessive, non li attanagliano ammantante con l’uniforme della virtù, del vizio, della passione, vengono riconosciute e scacciate.

La filosofia non ha esistenza facile. Si trascina, fa le capriole, è sempre fuori luogo. Segue una via tortuosa – ma ogni giorno tutti vogliono andare diritto. Ha un bagaglio insopportabile, un nome per ogni giorno, un verbo per ciascuna azione. Ma grazie a questo spirito di imbarazzo, questa tenebra che va plasmata prima di ostentare la lanterna, si scopre, d’improvviso, che la vita muta volto, che succede qualcosa.

Senza dubbio, l’intrattenimento ha addomesticato la novità. Non è più ciò che era. Il mondo si è spaccato come un frutto, il centro è lontano, non sappiamo cosa contiene. L’amore rappresenta questa avventura. Quando le famiglie parlano di affetto, interesse, riposo, noi vediamo una metamorfosi. Questo lampo quanto durerà? Avranno ragione gli altri? La filosofia si contorce in queste domande. È una voce libera, anomala, più appassionata della passione, capace di attendere e di superare. Dice Io e ti taglia fuori. Il mondo si è girato su se stesso e ci guarda.

Questa opacità del quotidiano l’abbiamo detta familiare, perché si presenta con un aspetto che di per sé non è rivoltante. La maggior parte delle verità sarebbero insopportabili, se uno stomaco assai più sano del nostro, quello della società, non le avesse già digerite. Tutto si rimette in questione, questo bisogno infantile legato alla generosità, ma anche alla facilità delle circostanze: negando tutto, non si sopprime nulla. Così, in mezzo alla rassicurante presenza delle cose e delle leggi, ciascuno edifica le proprie teorie.

I riformatori più esagitati, infantili, propongono di uccidersi. Vedono nel suicidio la punta del problema generale, il giudizio ultimo sulla vita, e così via. Ma questo abisso, svelato con tanta prontezza, appare frivolo. A un’idea segue l’altra, una cifra si conferma nella prossima: questa connivenza nega la tragedia. Anche se un’equazione dimostrasse che il suicidio è l’unica via, essa rimarrebbe tuttavia inefficace, fatua. Chi vi si abbandona, resta impastoiato nel suo gioco: ha voluto dimostrare che il mondo è niente, e al termine della dimostrazione si rivelerà esso stesso un niente, insopportabile presenza in un universo vuoto. Nel momento in cui crede di coincidere con la propria essenza, si scopre fuori di sé. È vero che i candidati al suicidio invocano un altro motivo: il bisogno di giustizia in un mondo scoordinato. L’impostura è la stessa. Quando parlano di giustizia, impongono una parola che precede la metafisica, che li scoraggia, dacché è un termine troppo antico, troppo umano. Il disordine del mondo, al contrario, è una nozione moderna. Devono scegliere, e la loro proposta crolla finché mantengono entrambi gli elementi. In effetti, una certa idea di giustizia, scevra da concetti morali, ridotta a una certa forma di uguaglianza, al rispetto delle forme, è accettabile, al limite, per una società fondata sul culto del Corpo e della Chimica. In queste condizioni, il suicidio appare come un pregiudizio, un’opinione, perfino antiquata. Se l’uomo non è che una miscela di idrogeno e di azoto, farebbe bene a obliare le statue che ornano il giardino della sua infanzia e comportarsi normalmente, poiché non abusa di nessuno.

Il problema che tutti affrontano è proprio quello dell’ordinario e dello straordinario. Se la vita fosse omogenea, la morale, i costumi, i progetti sarebbero esattamente proporzionali all’umanità. In effetti, questo accordo universale riposa sul miracolo della fede. Crediamo a ciò che ci viene detto, agiamo come se la terra fosse rotonda, confidiamo nel fatto che Buenos Aires sia in Argentina, diamo fiducia a mille altre proposizioni che non verifichiamo. Anche se potessimo verificare, occorrerebbe controllare ogni cosa, perché basta un errore, un’unica bugia per rovinare il sistema. Non è necessario; siamo radicati in un universo di credenze. Se consideriamo d’un colpo questo fenomeno, capiamo lo sconvolgimento proprio della filosofia che taglia e decide ciò che è intorno e dentro di sé.

Amare e credere sono atti correlati, che si compenetrano quando si tratta di vivere. Ecco come rispondere ai teorici del suicidio: gli uomini non si ammazzano perché amano la vita, e la amano perché hanno fede in essa. Non pensano di essere unici, meravigliosi, cristallizzati su un piedistallo aureolato da un recinto, con il caos intorno. Al contrario, hanno l’impressione di parlarsi, di vedersi, di congiungere le loro visioni. Alcuni addirittura immaginano sentimenti straordinari. Veri o bugiardi che siano, vale la pena osservarli.

Amare un altro è precisamente la prima scoperta che il bambino fa nella sua famiglia. Senza dubbio, egli conosce Dio, i genitori, questi augusti Personaggi che si danno a profusione, ma che non possono darti l’idea dello straordinario. Quando scoprirai che questo universo ragionevole non conta più nulla al cospetto di un volto appena intravisto, di una mano toccata di notte, allora sarai un ottimo oggetto di studio per la filosofia. Se da una parte ci fossero secoli di civiltà e dall’altra pochi minuti di felicità anomala, l’immediato vincerebbe, perché i secoli non hanno misura umana.

L’anima vagabonda illumina questo mondo. Non c’è bellezza senza verità e rivelazione. Essa brilla e non si lascia toccare. Ciò che s’intende per misticismo non è un’esperienza rara, confusa, per pochi – è il grano che facciamo nostro tutti i giorni. La morte viene annullata in questa prospettiva. Non abbiamo mai scommesso davvero sulla sua forza. Pensiamo di opporre alla morte una staffilata di massime, per stanchezza o riverenza verso un Dio che assomiglia troppo a un giudice per essere autentico. Non ci si arma per una sconfitta. Non osiamo affrontare una cosa così semplice: vedremmo la nostra immagine e non un lungo rimpianto, il piagnisteo della vita.

Roger Nimier

Gruppo MAGOG