Esce al cinema il 12 febbraio, in tutto il mondo, per una notte sola. Esce il giorno del suo compleanno, e quest’anno ne avrebbe compiuti 81. Esce il 12 febbraio The Doors: Break on Thru. A Celebration of Ray Manzarek, docu-concerto in onore del co-fondatore dei Doors. E a vederlo io non ci vado, nossignore, non vado alla messa-ricordo di chi per me non è morto. Quasi 7 anni fa moriva l’uomo, non il ‘cervello’ dei Doors, il tastierista, nonché bassista con la mano sinistra. Chiunque voglia conoscere Ray Manzarek, non ha che da ascoltare i brani dei Doors: lui è lì, come è nei film che ha girato, e come è in Light My Fire, la sua autobiografia. Libro che è una lettera-fiume, a Jim Morrison, colui che, fino all’ultimo dei suoi giorni, Ray si è dato la colpa di non essere riuscito a salvare.
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Ray Manzarek, quel 3 luglio 1971, non ci crede che Jim è morto, stecchito, in quella vasca da bagno. Overdose, infarto, quel che diavolo è stato, a Ray arriva una telefonata, di una sola frase, dritta, mirata, come una fucilata. Ray non dice niente, e butta giù. Non ci crede, crede sia uno scherzo, una presa in giro: non è la prima volta che succede, che la voce della morte di Jim Morrison gira, da quando è lontano, in esilio, in fuga, in Europa, a Parigi. Ray non ci crede e non parte, non sale su quell’aereo insieme a chi dell’entourage dei Doors è chiamato a sbrigare il da farsi. Il corpo di Jim non torna, rimane a Père-Lachaise, e Ray ci crede, deve crederci, quando a Los Angeles rientra Pamela, la donna di Jim, e Ray le piomba in casa: vuole che gli dica la verità, su quella che lui valuta una grottesca messa in scena. Fino all’ultimo istante, prima di bussare, entrare, Ray pensa che Jim stia spassandosela chissà dove. E invece: bastano gli occhi di Pamela, quel vuoto, quel suo smarrimento, a Ray, per capire che è tutto finito. Ray e Jim che si erano incontrati – e trovati – alla UCLA, l’università del cinema di Los Angeles, entrambi con Josef von Sternberg tra i professori, e il futuro Francis Ford Coppola quale compagno di corso. Ed è vero: la storia di quello che è tra i gruppi rock il più dionisiaco, letterario, intinto di blues, inizia con una chiacchierata sulla spiaggia di Venice, tra Ray che al termine degli studi non sa che caz*o fare, e Jim che vive in una soffitta, brucia gli assegni che i genitori gli inviano per mantenersi, e cambia idea, non va più a New York perché innamorato di Pamela.
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Ma se c’è qualcuno a cui dobbiamo sul serio, nel concreto (vedi alla voce soldi) la nascita dei Doors, questo qualcuno si chiama Dorothy Fujikawa. Nome e cognome che a tanti dirà niente, e invece è la ragazza di Ray, incontrata tra i banchi dell’università, al corso base di disegno: è lei che, saputo dell’intenzione di fondare una band, non ha dubbi e convinta dà a Ray e a Jim questo ultimatum: “Avete un anno di tempo, per trovarvi un manager, una casa discografica, firmare contratti che trasformino il vostro sogno in realtà. Non pensate ad altro, ché vi mantengo io, con due lavori”. È Dorothy che si occupa dell’affitto, delle bollette e del cibo, è lei che crede subito nei Doors quando sono solo un nome rubato a William Blake. E così avviene, i Doors ci mettono davvero un anno a firmare quel contratto con la Elektra Records, che rilascia il loro primo album, quello dove c’è Light My Fire, l’hit che li porta alla gloria. Light My Fire che è stata scritta da Robby Krieger, e però è Ray che sviluppa la parte centrale, strumentale, quella tagliata per far passare la canzone in radio, quando in realtà si teme la censura. Perché la parte centrale di Light My Fire è un chiaro, nitido, inequivocabile orgasmo messo su nota in ogni sua estatica fase. Dorothy verrà ripagata della sua generosità con l’assegno di 50.123,75 dollari che Ray si mette in banca già a metà 1967. I due si sposano per interesse: convivono, gliene importa nulla delle formalità, e si sposano per fregare il fisco, dividere il reddito e risparmiare un sacco di soldi. È la vigilia di Natale 1967 e Ray e Dorothy convolano a nozze in una cerimonia per me da favola: invitano solo Jim e Pamela, cioè i loro testimoni. Si va in Comune, formula e firme di rito, poi tutti e 4 a mangiare messicano, e a prendersi una sbronza memorabile. In verità, i genitori dello sposo, e della sposa, sono invitati ma non prendono parte alle nozze. Oggi pare una barzelletta, ma i fatti sono i seguenti: mamma e papà Manzarek non sono d’accordo che il loro figliolo prenda in moglie una giapponese, e mamma e papà Fujikawa non approvano che Dorothy sposi un non giapponese. Rompono i rapporti con i rispettivi pargoli per anni, fino alla nascita di Pablo, primo e unico figlio di Dorothy e Ray.
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Ray Manzarek, musicista rock immune dai vizi. In quell’ambiente, e in quegli anni! Eppure è così. Insolito rapporto, quello tra Ray Manzarek e le droghe. Canne sì, ma poche, e solo se non deve guidare, ma zero alcool, zero cocaina e eroina, e per quel che riguarda gli acidi… Fino al 1968, in California l’acido è legale e costa sui 2 dollari a dose. Ray e Dorothy lo prendono la prima volta insieme, e non ‘viaggiano’: a Ray era stata data una dose blanda, e da lui divisa per due. La seconda volta volano, e Ray vede, nell’ordine: un sole; Dio; un ventre materno in cui entra e giace; una arancia i cui spicchi contengono il succo della vita (!) I viaggi successivi però sono brutti trip, Ray ne esce urlando, talmente spaventato da non prendere più quell’LSD che invece è stato, insieme all’alcool, il compagno più fedele di Jim Morrison.
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L’unione tra Ray e Dorothy dura tutta la vita. Come non si siano mai venuti a noia, lo sa il Cielo. Ray scrive che Dorothy assomiglia al suo ideale massimo di donna, un incrocio tra Marlene Dietrich e Anna May Wong. Io invece mi permetto di credere alla difficoltà a staccarsi da tali labbra e zigomi, così perfetti da far impallidire il più eminente chirurgo plastico (li puoi ammirare in Jim Morrison. Diario fotografico, di Frank Lisciandro). Ma i genitori di Dorothy l’avranno mai scoperto che lei appare nuda nel film di Ray Evergreen? Ai tempi pre-Doors, quando Ray sognava di essere il Godard americano, e insieme a Dorothy si riempiva occhi e mente coi film della Nouvelle Vague, e di Bergman, Antonioni, Kurosawa (a proposito: qui vedete Evergreen, il film di Manzarek del 1965). Una volta sono andati in un cinema gay, a vedere Un canto d’amore di Jean Genet: la storia di un amore tra due uomini vissuto in prigione, e quindi frustrato da desideri impossibili da consumare. Alla fine i due protagonisti riescono a godere attraverso i loro sospiri, soffiati dentro una cannuccia inserita in un piccolo buco del muro che separa le loro celle. Dopo più di 40 anni, Ray ancora ricordava che lui e Dorothy, su quelle poltroncine, non si erano mai eccitati tanto.
Barbara Costa