“È forse l’ultimo giorno della mia vita.
Ho salutato il sole, alzando la mano destra,
ma non l’ho salutato, dicendo addio.
Solo un cenno al vederlo ancora, niente altro”
Con questi quattro versi, più un frammento di conversazione verbale tra un uomo e i posteri che un messaggio in forma di poesia, Fernando Pessoa dà voce ad Alberto Caeiro, uno dei suoi tanti eteronimi, nel giorno della sua morte, morte che il poeta di Lisbona aveva posto nel 1915. Tale sorta di alter ego, definito “maestro”, nato nel 1889 a Lisbona, come lui, aveva trascorso tutta la vita in campagna, senza professione né istruzione, un’anima pura, insomma, incorrotta dai dogmi della civiltà del pensiero occidentale. Piace qui ricordare come Pessoa, ben prima di tanti scrittori contemporanei, sia stato uno scrittore che dentro di sé portava un baule pieno di gente, come lo definì il suo traduttore Antonio Tabucchi.
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Leggendo l’articolo su Pangea, “Il Muhammad Alì dell’agone letterario”, di Francesco Consiglio, sui profili fake e sulla figura gianesca, bifronte definizione di Mozzi 1 e Mozzi 2 – come se Mozzi nella sua vita avesse avuto, alla stregua di un Picasso, un periodo rosa, blu o che altro –, ho sorriso ancora una volta, naturale rapporto di causa ed effetto, al volpesco genio di Mozzi. Che poi Mozzi, o chiunque altro, esprima se stesso, come scrittore, attraverso i personaggi di Mariella Prestante, Bissolati, Dalcielo, Meliconi, Sorgato, trovo che non ci sia nulla di male. C’è poi da fare luce su quella che Francesco Consiglio ha definito “L’arte sibillina delle identità contraffatte”. Premetto che ho trovato molto bella la sua metafora a proposito di Mozzi incassatore come il robusto Muhammad Alì davanti a George Foreman nel combattimento disputato il 30 ottobre 1974 a Kinshasa. Occorre dire una cosa importante, ovvero che la scelta del Mozzi creatore di identità fittizie, diversamente dallo scrittore, nonché consulente editoriale, insegnante e talent scout, non è e non può essere mai una scelta per capriccio o d’invenzione in un bel giorno di sole, e che se il pugile Mozzi in quel caso incassa bene, sotto le vesti di Mariella Prestante colpisce.
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Chiaramente è lo strumento Facebook che ha dato il senso, ludico, promozionale o meno, di costruire dei dialoghi tra i vari avventori del web e Mariella Prestante di cui, dopo alcune poesie uscite insieme a vari racconti sul volume Fiction 2.0, è stato pubblicato il libro dal titolo Estremi amori, postume querele. Mozzi si è sostanzialmente reinventato attraverso i pettegolezzi erotici della Prestante, gli sberleffi, le trovate istrioniche e le recensioni impossibili, di libri altrettanto impossibili, del buffo Bissolati, come le raffinate descrizioni di Carlo Dalcielo e così via, che altro non sono che un gioco malizioso per la gioia o lo spaesamento del lettore, tutt’altro che gratuita malignità. Qui casca il morto: il caso di Monica Rossi e di altri profili falsi dentro la cosiddetta bolla social. Chi si nasconde dietro un profilo fake, se non lo fa a scopo letterario, lo fa spesso per il proprio tornaconto.
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Diciamo che nascondersi ha un margine di legittimità. Chi non ha mai desiderato di sparire almeno un centinaio di volte, specie in piena adolescenza, per un ceffone di nostro padre o per un senso di vergogna? Chi non ha mai desiderato essere altro? Il fatto è che divenire uomo è una questione del tutto privata, un rinascere dal proprio ieri che si situa tra sacro e profano, tra l’orgoglio e la ripugnanza della scoperta del proprio seme. Presto si mastica la vita, questa vita di cui, a fatica, si digeriscono le maschere. Frequentano ogni genere di esistenza le maschere, ogni genere di teatro, soprattutto ci frequentano, ci ammaliano. Le maschere, in quanto maschere, hanno una loro parte nel copione da recitare, non rendono conto a nessuno, se non a se stesse. A esse si attribuisce spesso una virtù inammissibile altrove, un presunto coraggio, il coraggio di nascondersi. Bisogna sfatare una buona volta il mito che chi si nasconde è un eroe, a meno che questo oscuramento non sia frutto del più nobile raziocinio o di una libertà necessaria. A proposito di anonimato necessario, ricordiamo come Giovanni Raboni, nella sua raccolta di stroncature in quarant’anni di attività critica letteraria dal titolo Meglio star zitti?, uscito lo scorso anno negli Oscar Mondadori, ci racconti i problemi di Milan Kundera in patria con il regime, di come i suoi libri non potessero essere né pubblicati né venduti, né tantomeno alcuna rivista o giornale potesse ospitare i suoi articoli o citare il suo nome. Ciò non gli impedì di cercare di procurarsi da sopravvivere, tenendo, sotto falso nome, una rubrica di astrologia in un settimanale il cui direttore rischiava, così facendo, di perdere il posto.
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Ci sono maschere e maschere, insomma: di terracotta che, cadendo, si sfaldano e maschere nobili e di grande potere, come la maschera d’oro di Agamennone. Nel mezzo ci sono le maschere di Pulcinella, le maschere di carnevale che almeno una volta nella vita bisogna indossare, per capire quel filo sottile che passa tra la verità e la menzogna, tra il gioco e la disillusione. Già in queste ultime riflessioni mi si para davanti la più necessaria delle domande: che cosa induce un uomo a mascherarsi dietro un nome di donna? La mia risposta a caldo è per una strana tendenza a una sorta di voyeurismo innato. La seconda, decisamente più meditata, è per pura e semplice adulazione, desiderio di far colpo sull’altro sesso, stabilire un contatto diretto ed essere trattato da pari a pari. Che poi, stiamo intesi, mica siamo tutti rincoglioniti o rincoglionite da abboccare all’amo. Chiaro che il gioco ha una sua componente importante, sempre che quella componente incontri la nostra ironia. Che sarà mai un profilo fake con un nome di donna che si prende la briga di offendere?
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L’esperimento carcerario di Stanford del 1971 ha ampiamente dimostrato quel sottile confine tra bene e male che è in ognuno di noi. Non c’è più tempo per i sentimentalismi. Non parliamo poi del consenso. Comincio a diffidare di chi ha sempre consenso, a meno che non abbia una storia chiara alle spalle. Questa storia dei profili falsi puzza di Dottor Jekyll e Mr. Hyde, di disturbo bipolare con picchi vertiginosi di autostima. Ma cuori e like per un profilo falso, che non ha neanche le carte in regola per farci divertire, come ce l’ha invece Mozzi, qualcuno prima o poi, per questo fenomeno, dovrà darci una spiegazione. Non si può negare la genialata di Mozzi nel creare quei profili, e forse non è lecito entrare troppo a fondo nella polemica – che già ha destato qualche clamore –, in parte voluta da Francesco Consiglio, nel momento in cui esprimeva il suo libero dissenso nei confronti di questi personaggi d’invenzione in carne e ossa. La cosa non gli ha impedito di esporsi agli attacchi dei suoi difensori, dove ognuno ha avuto il suo singolare ben che dire, con la propria personale arringa. Ogni testa, si sa, è un tribunale. Chiaro che se si risponde a una provocazione solo per irridere, e con denti da iena ridens, allora è inutile. Le attenzioni, di fatto, dal caso Monica Rossi si sono spostate su Mozzi. Diciamo pure che negli anni se l’è meritate ampiamente. Faccio il nome di Mariella Prestante, questa poetessa “ridotta ormai a un magro scheletro”. Interessante è il modo in cui Mariella trovi la maggiore quanto libera espressione nell’ambito della bolla social, più che nell’ambito della carta stampata. Mariella Prestante era ed è – beh, dell’esistere c’è anche da dubitare, in quanto morta o presunta, tanto da costringere Mozzi ancora una volta a farci divertire sul suo conto, rinominandola su Facebook “Mariella Prestante rediviva” – un personaggio che Facebook ha il merito di avere fatto conoscere ai più, laddove si è potuta esprimere, attraverso sboccati sonetti poetici, in odor di vita e di morte, ma a conti fatti, un personaggio “virtuale”. Chiaro che questo si può sempre smentire, ritenerla viva a tutti gli effetti, ma, dopo averne visto e ascoltato un reading on line, posso dire che ho sentito più presente il creatore rispetto alla sua creatura, per usare un termine che riecheggia il Frankenstein di Mary Shelley. Di contro, la bolla dei social comporta tutti i rischi del caso. Ricordo quello scrittore che in un particolare momento di sconforto scrisse senza pudore un post in cui dichiarava di odiare i suoi fan. In fondo, quale artista non odia i suoi sostenitori, che s’innamorano del feticcio costruito o meno, che spesso travisano l’autenticità dell’artista, il background dell’opera, gli anni di lavoro, come i tifosi che ignorano i sacrifici muscolari del calciatore, i problemi psicofisici legati agli infortuni. Eppure, quell’artista ci ha messo la faccia, il calciatore ci ha messo le gambe, entrambi ci hanno messo, più o meno, la testa, in senso fisico o cerebrale, ma quanto basta davvero a liquidarne in un solo giorno l’operato?
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C’è poi il profilo fake, ovvero l’identità d’invenzione non esplicita, che del deridere e prendersi gioco di buona parte della categoria “scrittori” ha dato prova il profilo Monica Rossi. Non lo dico a mo’ di provocazione, non so chi sia, né potrei mai conoscere Monica Rossi. Odiare è, a prescindere, un sentimento umano, ma sarebbe, però, anche ora di dire che non si può fare di tutta l’erba un fascio. Il punto è che la bolla social ci ha permesso tutto, di potere accedere a territori di una bellezza e di un orrore inauditi, consentendoci di costruire un mondo a compartimenti stagni, una realtà virtuale, o meglio, una reale virtualità, come in Matrix. È questo un caravanserraglio in cui rischiamo ogni giorno di trascorrere sempre più tempo, dove poter sempre tornare e riaggiornare il nostro punto di vista su cose e fatti. Per altri è un’aula giudiziaria dove dare adito ad accuse e pettegolezzi gratuiti alle spalle di altri, contro coloro che ci mettono la faccia. Sarebbe inopportuno, non conoscendo la verità su Monica Rossi, chiedersi quando porrà fine al suo personaggio costei, o meglio costui. Sta di fatto che il sunnominato o la sunnominata, quando vuole, spara a zero sulla categoria “scrittori”, – che abbiano talento o meno questi scrittori sono persone e hanno tutto il diritto di dimostrare il loro valore con il tempo – ma non affronta il suo interlocutore, il suo sfidante, in maniera diretta, come un pugile autentico. Egli usa una maschera, sproloquia e fa il nome di Tizio e di Caio, senza alcuna remora.
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Per alcuni Monica Rossi sarà la Tootsie della letteratura italiana, per altri sarà verità fatta persona, l’Eletto magari, o per chi, come me, adesso ne scrive, tutto e l’infuori di tutto. Non ci resta che rimanere nella vana attesa che si riveli, prima o poi, il mistero secretato dai profili fake, né più né meno che volti nascosti da maschere, le maschere evocate dai versi del Quaderno di quattro anni di Eugenio Montale.
“Chissà se un giorno butteremo le maschere
che portiamo sul volto senza saperlo.
Per questo è tanto difficile identificare
gli uomini che incontriamo.”
Alessandro Corso