11 Novembre 2024

Di poeti immobili, o delle parole che si scrivono per vedere

Ci sono mattine in cui una luce misericordiosa avvolge i corpi con delicatezza, senza stringere né pesare sugli occhi, e diluisce gli affanni di chi ha abbandonato l’inquieta traversata del sonno e ha affidato il proprio passo alla strada.

Sono uscito dalla metropolitana alla stazione di Ueno e invece di prendere la Yamanote per scendere alla fermata successiva, mi incammino a piedi verso Uguisudani. Il posto che sto cercando non è lontano, ci sono già stato alcuni anni fa e so che prima o poi, con un po’ di fortuna, ci passerò davanti.

Lo Shikian è una costruzione bassa in stile tradizionale sfuggita alla frenesia edilizia di Tōkyō, conta un’entrata e un paio di stanze aperte su un arruffato quadrato verde circondato da edifici più recenti.

Non sono le stesse pareti all’interno delle quali, sul finire dell’Ottocento, un giovane poeta sfinito dalla tubercolosi trascorse nella quasi assoluta immobilità le stagioni terminali della sua breve vita, la casa fu infatti ricostruita nello stesso posto, e più o meno uguale a com’era, dopo che quella originaria venne danneggiata dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale.

Masaoka Shiki, che era nato nel 1867 a Matsuyama nello Shikoku, ha composto in questo angolo riparato della città alcuni dei suoi haiku più famosi. Aveva scelto di chiamarsi Shiki perché il kanji con cui si scrive il nome può essere letto anche come hototogisu, cuculo, l’uccello dalla gola rossa che secondo la tradizione giapponese canta finché non sputa sangue, e proprio al cuculo, come per una ancora oscura profezia, Masaoka aveva dedicato a undici anni il suo primo componimento poetico.

Guardo le foto appese all’ingresso e lo vedo seduto davanti all’engawa con un braccio appoggiato su un basso sgabello; si è fatto aprire completamente le porte scorrevoli che danno sul giardino per lasciare entrare nella stanza l’alito che accarezza la città, «delizioso è il passare della brezza ancora fresca tra le aperture del mio kimono» scriverà in una delle sue ultime prose.

Ha poco più di trent’anni, si è rasato i capelli ed è ancora più magro di ieri; immagino la sua mano quasi inerme reggere a fatica il pennello, immagino i suoi occhi infiammati da una malattia che già sa non gli darà scampo.

«Quando vi capiterà di incontrare il mio nome – scrive in uno dei pochi momenti in cui la morfina attenua il dolore procuratogli dalla tubercolosi spinale – penserete che sono ancora vivo, gioendo per un raggio di sole che entra nella mia camera di sei tatami».

Alle porte scorrevoli che danno sul giardino ha fatto sostituire con vetri i tradizionali shōji in carta di riso per poter avere davanti agli occhi quello che per lui è diventato l’intero mondo.

«Non potendo andare lontano un tempo dicevo di quanto sarebbe stato bello riuscire a camminare per il giardino – scrive sdraiato sul letto –, dopo un anno, non riuscendo più a camminare, avevo pensato che sarei stato felice se mi fossi potuto alzare in piedi, poi di poter stare qualche momento seduto, infine anche solo di rimanere sdraiato un’ora senza dolore».

Nel giardino, tra le erbe arrugginite dall’autunno, si accende il rosso intenso dei lycoris, gli higanbana, i fiori dell’equinozio d’autunno; sopra la mia testa, appena oltre l’engawa, pendono gli strani frutti della luffa, gli stessi che Masaoka poteva vedere alzando gli occhi e che aveva disegnato sul suo quaderno di schizzi.

Proprio alla luffa, il cui olio utilizzato come espettorante su di lui aveva smesso di fare effetto, il poeta ha dedicato i suoi tre ultimi haiku, scritti poche ore prima della morte avvenuta nella notte tra il 18 e il 19 settembre del 1902. Il primo dei tre dice:

La luffa fiorita
intasato dal catarro
un buddha.

*

Sono uscito dallo Shikian e cammino lentamente verso la stazione di Uguisudani, la valle degli usignoli che si apre su strade senza traffico, tra imperturbabili palazzine e love hotel che sussurrano al passante le loro tariffe, per un’ora, due ore, un pomeriggio, e mostrano le foto di camere giocattolo in attesa di amanti alla ricerca di un’oasi dove sostare al termine di una giornata d’ufficio, prima del treno che li farà di nuovo scomparire nella distesa di tetti dei sobborghi.

Ripenso alle parole del giovane poeta – «un mangiatore di cachi che amava gli haiku» in questo modo ci ha pregato di ricordarlo –, al cuculo che si è annidato nel suo nome, agli usignoli di questa valle che non conosce frusciare di foglie né nebbia mattutina.

Mi commuove la dolorosa immobilità alla quale Masaoka fu costretto nell’ultima porzione della sua breve vita e come fino all’ultimo si sia dato da fare per riempirla di parole. Mi torna in mente un altro letto accanto al quale ero solito trascorrere alcune ore al mese, un altro corpo immobile i cui muscoli senza vita erano stati sostituiti da un’impalcatura di parole.

Ho conosciuto Piergiorgio Cattani quando dirigeva per un editore indipendente una collana in cui trovavano posto brevi testi in prosa e raccolte di poesia. Nel 2010, in quella elegante collana semiclandestina, sarebbe uscito un mio piccolo libro intitolato Ospiti. Era un resoconto poetico di un viaggio attraverso le ultime stazioni della vita, il sedimento affettivo lasciato da decine e decine di incontri con persone, donne soprattutto, che lavoravano in istituti per vecchi e per malati senza speranza, nei luoghi dove i corpi e le anime attendono la coincidenza che li porterà via.

Il direttore editoriale della casa editrice era incerto se affidare a Piergiorgio, viste la sue condizioni di salute, quelle pagine che recapitavano annunci di un imminente abbandono.

Piergiorgio era giunto all’ultimo stadio di una grave forma di distrofia muscolare, la sindrome di Duchenne, un ultimo stadio che però, meravigliando i medici che l’avevano in cura, sembrava durare molto più del previsto; raramente infatti tale malattia permette alle persone che ne sono affette di superare i trent’anni, confine che lui aveva da tempo oltrepassato. Gli era stata diagnosticata quando era in quinta elementare, «non ce la facevo più a salire le scale – mi aveva detto un giorno – le gambe mi cedevano e fare un altro scalino era diventava un’impresa».

Col passare degli anni la vita di Piergiorgio si era inesorabilmente ristretta diventando infine una vita immobile; già la prima volta che l’ho incontrato i suoi muscoli erano completamente inutilizzabili e del suo flebile corpo non riusciva a muovere nient’altro che gli occhi e un ultimo frammento di dito, il polpastrello con cui riusciva ad annotare qualche riga per mezzo di un trackball. Di tanto in tanto usciva ancora di casa, dopo essere stato sollevato dal letto e impacchettato sulla sedia a rotelle, per partecipare a riunioni, seminari, lezioni, ai pochi incontri che giudicava irrinunciabili.

Anche la sua era diventata nel tempo un’esistenza fatta quasi solo di parole, quelle che leggeva, che scriveva o dettava a uno dei ragazzi che lo assistevano, frasi composte a fatica che finivano sulle pagine del quotidiano con il quale collaborava o negli interventi pubblici che il più delle volte altri leggevano al suo posto – e che per questo perdevano inevitabilmente la loro originaria intensità –, che viaggiavano lungo i sentieri invisibili del web o che avevano trovato posto negli alcuni libri che aveva pubblicato.

Intitolò l’ultimo Guarigione ed era la cronaca della discesa di un disabile grave lungo i gironi infernali dell’istituzione sanitaria. Ricordo quando mi raccontò del tentativo che un medico aveva fatto per convincerlo a sottoporsi a una tracheotomia, a cui lui aveva risposto che preferiva morire al perdere la voce, l’unica cosa che gli restava, quella che, seppure a fatica, riusciva ancora a sollevarsi tra le onde del ventilatore polmonare a cui era collegato.

Quando presentò il libro, gli portai una calligrafia augurale in cui quel titolo, Guarigione, era stato trasformato in un kanji gettato con irruenza sopra un grande foglio, una specie di talismano per i giorni a venire.

Sfoglio una raccolta di poesie non pubblicate scritte da Piergiorgio; si intitola Azzurro e polvere ed è datata dicembre 2010. Parlano del mutare di colore del cielo al trascorrere delle stagioni, di fili d’erba bagnati di rugiada, di piogge d’autunno e temporali estivi, di un intero mondo costretto dentro al riquadro di vetro di una finestra; raccontano del rapido fiorire e sfiorire dell’unico albero, un ciliegio, che immobile nel suo letto Piergiorgio poteva vedere, di come quell’albero, ogni anno, gli mostrava l’accendersi della primavera.

Ma ricordo che consegnandomi quella raccolta di fogli rilegati con una semplice spirale mi aveva anche detto dell’aria che lo investiva felicemente le poche volte che, trasportato di peso fuori casa, chiedeva a uno dei suoi assistenti di spingere più in fretta la sedia a rotelle. «In quei momenti – disse – sento che le mie gambe sono tornate a funzionare e ho la sensazione di correre come un bambino sfuggito a chi lo teneva per mano».

*

È difficile dire perché le diciassette sillabe di un haiku talvolta facciano vibrare una corda altrimenti muta sotto la nostra pelle e altre volte scappino subito via come una voce a cui passando non si fa caso. Forse dipende dall’ora del giorno, da come la luce illumina le cose, o da quanto i nostri occhi sono pronti a vedere senza porsi domande ciò che il mondo offre loro, come in un’apparizione, nel silenzioso venirci incontro di quello che semplicemente è.

Nel 1894, ventiseiesimo anno dell’epoca Meiji, Masaoka Shiki pubblica a puntate sul quotidiano Nihon i suoi Bashō zōdan, i suoi appunti disordinati su Bashō. In essi sottolinea la grandezza del poeta comunemente considerato il più grande haijin, e di certo il più famoso, ma allo stesso tempo cerca di tirar giù il vecchio maestro dall’altare dove è stato collocato in quanto divinità intoccabile, per discuterne sia i notevoli pregi letterari sia le cadute di stile e le opere poco ispirate.

«Non sono mai stato uno dei fedeli dediti al culto di Bashō – scrive Shiki – e il duecentesimo anniversario della sua morte non mi rende né lieto né triste, ma invece di starmene buono o di cercare di ricavarne qualcosa, mi ha preso lo strano capriccio di passare un po’ di tempo alla scrivania e di buttare giù questo discorso in frammenti, senza badare troppo a quello che scrivo. Ecco allora la mia critica di Bashō, chi vorrà capire capisca, chi vuole offendersi si offenda pure».

Del migliaio che Bashō ha scritto sono duecento, e non necessariamente i più famosi, gli haiku che secondo Shiki contribuiscono con la loro qualità alla grandezza del maestro. Ne rammento uno tra quelli davvero buoni che l’autore dei Bashō zōdan ha scelto per esemplificare la sua tesi; il giorno che lo lessi, le poche parole tracciate sulla carta assunsero, per motivi che non so dire, una densità quasi palpabile e per qualche minuto avvolsero il mio corpo prima di giungere alla mente.

Un cuculo –
sulla distesa di bambù
cola la luna.

Ricordo che tornando a casa una notte lo avevo ripetuto alcune volte a bassa voce. Ancora il cuculo dunque, il cui richiamo avrei dovuto inventare nel silenzio della strada o scambiare col fantasma di una voce distante; di nuovo l’intreccio delle piante di bambù, alcune formano la minuscola foresta che separa il giardino della casa in cui abito dal muro della vecchia scuola, e soprattutto la luna, la sua luce liquida che avrei veduto adagiarsi sulla stoffa increspata delle foglie e sull’erba del prato appena sfiorata dal chiarore dei lampioni, la luce che pigra sarebbe colata sul cofano delle automobili parcheggiate nel piazzale e che si sarebbe posata perfino sui bidoni di plastica della raccolta differenziata restituendoli ai miei occhi, intatti.

*

Ho incontrato per la prima volta il nome di Fukuda Chiyo leggendo il celebre libro in cui Daisetz T. Suzuki discute dei rapporti tra lo Zen, la cultura e l’arte giapponese.

Lo studioso racconta che la poetessa, già considerata una pregevole autrice di haiku, si reca in visita da un famoso maestro di passaggio nella sua città. Per metterla alla prova il maestro le assegna un tema convenzionale, il cuculo. Il maestro scarta però tutti gli haiku scritti dalla poetessa giudicandoli di maniera. Chiyo-ni torna allora a immergersi nel tema assegnatole e lo fa con tale intensità da non accorgersi che nel frattempo la notte è trascorsa ed è giunta l’alba. È proprio in quel momento che un ultimo haiku le appare ed è quello che il maestro accoglie con gioia, l’unico finalmente mushin, senza pensiero.

Cuculo
cuculo, chiamo tutta la notte
Poi finalmente l’alba.

*

Mi accorgo dell’esistenza di una invisibile membrana che il più delle volte mi ricopre gli occhi impedendomi di vedere. Mi sembra di essere allora un unico viscere vuoto e dolorante.

In quei momenti, se alzo lo sguardo verso il cielo, non vi trovo nulla, non il volo di una rondine, non una foglia che plana nell’aria né un lontano baluginare di neve. Rovescio allora la testa verso l’alto e mi domando dove sia andato a finire il mormorare curioso delle nuvole, le nostre care compagne di viaggio tante volte cantate da Robert Walser, la cui sostanza sembra essere così simile a quella della nostra anima.

C’è infatti una porta che divide la contemplazione dallo sconforto, la compassione dall’estraneità, la gioia del battito dal tonfo di chi cade. Un tempo qualcuno avrebbe detto che la sua apertura è nelle mani di un dio, o delle forze dell’oscurità. Io non mi pongo la domanda e se la porta si apre tuttalpiù lo chiamo miracolo.

Paolo Miorandi

*In copertina e nell’articolo: opere di Imao Keinen (1845-1924)

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