21 Maggio 2020

“La vendetta lo rendeva famelico”. Ricordando Philip Roth

Si scrive per disintegrare il passato – si snaturano i ricordi fino a trafugarli, farli a pezzi, trapiantandoli in un luogo fittizio. Chi scrive passa l’acido sui propri passi. Per questo, è visto con sospetto, spesso come un mostro: lo scrittore scrive ciò che della vita va celato, svela le vergogne, inchioda senza cautele al torbido. “Credo che l’armonia rovini la sua creatività”, ha scritto Claire Bloom a proposito del marito, Philip Roth.

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Lei, bellissima, aveva già avuto un paio di mariti. Il primo era Rod Steiger, Oscar per La calda notte dell’ispettore Tibbs; l’altro era il produttore Hillard Elkins. Nel frattempo, come intermezzo, s’intrufolò Roth. Si erano conosciuti nel 1966, facevano coppia dal ’75, si sposarono – su insistenza di lei – nel 1990. Da allora, l’idillio si ruppe, fino al divorzio, cinque anni dopo. A lui, di certo, piaceva il viso cinematografico di Claire e il cognome, che mandava ai fasti joyciani di Molly; d’altronde, lei era stata la spalla di Charlie Chaplin in Luci della ribalta, aveva recitato nel Riccardo III di Laurence Olivier, e in Alta infedeltà per Elio Petri, al fianco di Aznavour, un titolo, quello, che potrebbe indossare anche un romanzo di Roth. Di Roth sappiamo che adorava i sotterfugi, le piccole meschinità – con i libri, come tutti i grandi scrittori (raramente grandi uomini), provava i limiti di una relazione, fino al punto di rottura. Amava lacerare – e valutare la pazienza dell’altro nel ricucire. Lo scrittore è sufficiente a se stesso: gli altri sono orpelli, ornamenti, spunti. Leccornie. Scorie. “Avere una mente come quella di Roth sopra ogni tuo gesto, ogni tua parola, è lusinghiero – ma anche sconfortante”, scrive Claire nella biografia al vetriolo, Leaving a Doll’s House, in cui racconta i suoi amori – tra cui va ricordato Richard Burton perché lei, in quell’Alexander the Great del 1956, è superba – ma soprattutto sputtana Roth, censendo infelicità, infedeltà, minuziosi malesseri, piccolezze, insomma, pettegolezzi. Lui, invecchiando, crebbe in violenza, pensava che quel libro gli avesse rovinato la reputazione – doveva pensarlo, doveva scagliarsi contro qualcosa, qualcuno.

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Beh, Philip Roth nei pettegolezzi, nel fango umano, nuotava per dare vigore ai propri libri – a volte sopravvalutati, spesso spudorati, di certo narrativamente perfetti. Ora Benjamin Taylor, amico intimo di Roth, scrittore di pregio – in Italia è edito da Nutrimenti –, autore di una celebra biografia di Marcel Proust e di un paio di libri che raccolgono le lettere e i saggi di Saul Bellow, raduna una sfilza di memorie e chiacchiere in Here We Are. My Friendship with Philip Roth, appena pubblicato per Penguin. Taylor, buon per noi, ha il passo narrativo – altrimenti, presumo, Roth non lo avrebbe accolto come confessore e archivista dei suoi manoscritti. Questo è l’incipit del libro: “Avevo una domanda sulla punta della lingua, riguardava il baseball: Come si chiamava ‘il Migliore’, quel giocatore di genio a cui una fan sparò addosso, in un albergo di Chicago? Mi guardò divertito, poi perplesso, poi impaurito. Disse una serie di cose prive di senso. Venti minuti dopo il nostro arrivo al Charlotte Hungerford Hospital, Philip disse, ‘Basta libri’. Così annunciò il suo ritiro”.     

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Sottigliezze da scrittori. “Il Migliore”, The Natural, è uno dei migliori romanzi di Bernard Malamud, ennesimo ebreo-americano, uno dei padrini letterari di Roth. Nel 1984 Barry Levinson trae dal romanzo un film levigato, con Robert Redford; Philip Roth pubblica La lezione di anatomia, soffre di impotenza – leggi sotto – e schiavizza Claire.

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Naturalmente, le memorie dell’amico poco aggiungono all’opera di Roth – che sia insopportabile si arguisce dai suoi romanzi – e poi, che scrittura è se la possiamo sopportare, cioè sopprimere? Eppure, un paio di tenaci caratteristiche, la coabitazione con il dolore, con i ricoveri ospedalieri, la rabbia verso il passato, la certezza di essere stato tradito nel proprio turbine narrativo, danno rilievo alla statura – senza tema di vertigine, sotterranea, infera, piuttosto – di Roth. La vendetta – sentimento che mi è ignoto, ma augurabile – pare essere un propellente epico per scrivere. Si scrive, appunto, uccidendo – dando credito al proprio sterminio.

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Philip Roth, d’altronde, non si è mai ritirato, visse da sempre nel ritiro della propria mente; e non morì, avendo scritto la sua morte. “Perché la più inquietante intensità della vita è la morte. Perché la morte è così ingiusta. Perché quando uno ha gustato il sapore della vita, la morte non sembra neppure una cosa naturale. Io credevo, dentro di me ne ero certo, che la vita durasse in eterno… Le carne si dilegua, ma le ossa durano. Le ossa erano l’unico conforto che esistesse per uno che non credeva nell’aldilà e sapeva con certezza che Dio era un’invenzione e che questa era l’unica vita che avrebbe mai avuto”. Questo è Everyman, che è il Kohèlet dei nostri tempi. In un passaggio di questi ricordi, Roth, allucinato dagli antidolorifici, nel gorgo della notte, chiede all’amico se è sveglio, se dorme. Il dolore lo narcotizza, non conosce più la definizione di veglia, di sonno. Crede di vivere nel sogno del sogno di un altro – il vero incubo è restare incastrati nella propria scarnificante creazione. (d.b.)

 

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Dire che Philip Roth abbia smesso di scrivere è inesatto. Ha smesso di fare arte. Ma la disciplina di sedersi alla scrivania, lottare contro il disordine, continuò negli anni del ritiro. La parte oscura della sua grandezza brulicava di rimostranze che il tempo non aveva raffinato. Non riusciva a smettere di litigare con il proprio passato e produsse qualcosa come un migliaio di pagine che sono – come potrei chiamarle – una formula per giustificare e assolvere se stesso. Quelle pagine… le ho lette.

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Mi dava i suoi manoscritti, una pratica accelerata negli ultimi tempi. A volte erano regali di compleanno, altre volte no. A volte, faceva qualche battuta sul loro eventuale valore: “Servono a tranquillizzare la tua vecchiaia!”. Altre volte, si rivolgeva a me in modo solenne, come se fossi il suo archivista.

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Una volta, mi ha dato il prototipo di un libro, s’intitola Notes for My Biographer, che per un periodo fu annunciato di prossima pubblicazione. Il testo è lo sforzo, punto per punto, spesso bugiardo, di confutare tutte le accuse che gli aveva rivolto Claire Bloom, l’ultima moglie, in Leaving a Doll’s House. Quel libro, a dire di Roth, era la peggiore catastrofe della sua vita, la causa del suo reiterato fallimento al Nobel. Claire lo aveva assalito e lui doveva difendere la propria reputazione morale.

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Un altro manoscritto s’intitola Notes on a Scandal Monger ed è centrato sul suo primo prediletto biografo e in seguito ex amico Ross Miller, che a suo dire aveva editato in modo scorretto La macchia umana. Lo descrive come ingiusto e malvagio; ma Ross non era malvagio, era soltanto uno studioso poco accorto a cui Roth aveva consegnato un lavoro troppo complesso. Per Roth era una specie di Iago, “gli dai un ruolo troppo importante”, gli dissi, “non è malvagio, è solo incompetente”. Non mi ascoltò. Come con Claire, Maggie, Francine, così con Ross: la fame di vendetta di Roth era impareggiabile, non ne era mai sazio.

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Mi chiese di distruggere Notes for My Biographer – non lo feci. Notes on a Scandal Monger è conservato insieme ad altri documenti di Roth. Cosa fare di questi testi quando l’autore è morto? Esistono essenzialmente tre possibilità. La prima è eliminarli. Oppure, consegnarli alle ingerenze e alle negligenze degli eredi diretti. Infine, affidarli a un istituto che sappia prendersene cura. Così ho fatto. Ho trasferito la mia collezione presso il ‘Manuscripts Division’ della Princeton Firestone Library. Separarmi da quei documenti mi ha rasserenato. So che sono al sicuro, insieme a quelli di Melville e di Whitman.

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Roth accusa Claire Bloom di aver mentito riguardo alla sua salute. Ero uno dei suoi amici intimi, e posso testimoniare che i disturbi di Roth erano reali, terribilmente reali, e che il suo stoicismo nell’affrontarli strappava la mia ammirazione. Eppure, c’erano dei limiti. Gli piaceva citare una frase da Le nevi del Kilimangiaro di Hemingway: “Poteva sopportare il dolore come qualsiasi altro uomo, finché non durava troppo, finché non lo consumava”.

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Fu operato alla spina dorsale per tre volte; la terza mi disse che gli avevano aggiunto due centimetri di altezza, “ho incorporato in più una replica della Torre Eiffel”, diceva. Era terrorizzato dalla possibile perdita delle facoltà cognitive. Dopo le operazioni, di solito, per valutare se andava tutto bene, mi recitava il prologo del Canterbury Tales. Gli antidolorifici lo devastavano. Una notte, in campagna, verso le tre del mattino, entrò nella mia camera e disse, in lacrime, “Ben, puoi dirmi se sono sveglio o se sto dormendo? Chiama qualcuno, voglio scoprire se sono sveglio o se dormo”. Rimasi con lui, in camera, fino al mattino.

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Soffriva di malattie cardiache. Accadde nel 1982, gli dissero che aveva dei problemi. L’umiliazione dell’impotenza fu uno degli effetti dei beta-bloccanti. Implorava un intervento di bypass, gli fu ripetutamente detto che non era il candidato adatto. Poi, nell’agosto del 1989, a 56 anni, dopo aver nuotato soltanto una delle sue vasche pomeridiane, si chiese se avrebbe preceduto suo padre nella tomba. Ventiquattro ore dopo, a New York, fu operato per un bypass. Si sentiva rinato. Era finalmente libero dalla bomba a orologeria che gli era spuntata nel petto. Ebbe una nuova vita creativa, impressionante, che diede avvio a una sfilza di capolavori: Patrimonio, Operazione Shylock, Il teatro di Sabbath, Pastorale Americana, Ho sposato un comunista, La macchia umana, L’animale morente, Everyman, The Plot Against America, L’umiliazione e l’ultimo, che conclude il suo ciclo magistrale, Nemesis.

Benjamin Taylor

Gruppo MAGOG