Avrei voluto fondare due riviste, nei cui riguardi porgo una dedizione ingenua, infantile, non del tutto ingiustificata. Il genio genuino di queste riviste è esplicito fin dal titolo, dalla bellezza grafica, gratuita, dalla periodicità sporadica, dal destino – come un gioco di prestigio – di una illusoria costanza. Queste riviste esplodono – cioè: nascono con l’intento di sparire. La prima si chiama The Enemy, Il Nemico, dura tre numeri, dal 1927 al 1929, ed è il parto diabolico di Wyndham Lewis, l’organo antididattico con cui il grande scrittore – direttore, redattore, grafico: insomma, dittatore – si vendica di tutti, ex amici ed ex amanti, marginalizzato da tutto. Una rivista come atto d’urto, volontà di rabbia, palestra suicidale, che bello.
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L’altra fu organica all’oltranza, organizzata intorno all’onirico, degna autopsia del mostro sul lettino. Si chiama Minotaure, fu pubblicata a Parigi dal 1933 al 1939, durò 13 (ma un paio sono doppi) memorabili numeri, con illustratori d’inclassificata grandezza. Per intenderci, la copertina del primo numero è pittata da Picasso – esperto nell’arte di ritrarre minotauri – il sesto lo ha pensato Marcel Duchamp, l’ottavo Salvador Dalí, quello dopo Matisse, quello dopo ancora Magritte. L’editore, Albert Skira, foraggiava la promiscuità tra arte figurativa e letteratura – su quell’incrocio ‘mostruoso’ guadagnava bene, in effetti. Minotaure – evoluto spin-off di Documents, il periodico fondato nel 1929 da Georges Bataille – accoglieva per programma l’irrazionale, a pezzi d’arte s’alternavano saggi psicoanalici, pappe antropologiche, regesti onirici. Se il Surrealismo fu la Sfinge, Minotaure bombardò il labirinto, liberando il mostro, che danza. Vi scrissero, tra i vari, l’onnipresente Breton, Pierre Reverdy – di cui occorre rinverdire il ricordo, prima o poi –, Paul Eluard, Giorgio De Chirico, Valéry, Antoine de Saint-Exupéry, Pierre-Jean Jouve, Roger Callois, Jacques Prévert…
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Tra nemici e minotauri sto meglio, accudito nella mia bestialità di fogna, che tra Caffè, Politecnici, policlinici dell’intelletto, Verri, tedio vociano, argomenti che dovrebbero essere nuovi e nascono morenti.
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In fondo, Minotaure s’inscrive nel desiderio della letteratura occidentale da Conrad in qua: scatenare il mostro dal labirinto della ragione, elevare il selvaggio a re, sbrogliare il desiderio dall’atto, agire per furia d’istinto, levare dai ceppi l’animale che mi porto dentro. I russi non avevano questo problema: per loro – in prossimità d’Asia – il punto non è galvanizzare l’Io nell’Altro, nella bestia che è in me, ma annientare l’Io in Dio.
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Il secondo numero di Minotaure, illustrato da Gaston-Louis Roux, giugno 1933, è dedicato alla mitica “Mission Dakar-Djibouti”, coordinata da Marcel Griaule, etnologo di genio – leggetevi il bellissimo Dio d’acqua –, con lo scrittore Michel Leiris al seguito, in qualità di “segretario-archivista”. La spedizione parte il 31 maggio da Dakar, Senegal, si installa tra i Dogon, passa per Congo, Etiopia, Massaua, Addis-Abeba. I nostri atterrano a Marsiglia il 17 febbraio 1933. Testimoniando quel viaggio, Leiris scrive un certo numero di articoli su Minotaure, ma soprattutto il primo grande libro, L’Africa fantasma (1934), diario di bordo, confessionale, esorcismo letterario, feticcio.
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Morto nel 1990, Michel Leiris è uno dei tanti Minotauri dimenticati dalla cultura nostra, devota alla buona educazione – cioè: non leggete, comprate –, nel labirinto del tempo che fu. Peccato: è un autore corrosivo e corroborante, che rompe la prassi formale e inquina la cristalleria sentimentale. Naturalmente, in Francia lo trattano come un Prometeo: il suo capolavoro, la quadrilogia autobiografica pubblicata tra 1948 e 1976 con il titolo complessivo “Le Règle du jeu”, è relegato nella ‘Pléiade’ Gallimard, è un classico. Lo era anche per noi: il primo tomo del ciclo, Biffures, fu edito da Einaudi nel 1979 per la cura di Guido Neri; il secondo, Fourbis, con il titolo Carabattole, è edito da Einaudi nella ‘Nue’ nel 1998. Gli altri due, fregandosene del diritto della completezza, del buon lavoro culturale, cioè Fibrilles e Frêle bruit, sono ancora inediti, d’altronde, a chi interessano?
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In realtà, un’era fa Leiris era oggetto di strepitoso interesse. Andrea Zanzotto traduce Età d’uomo – un tempo in catalogo Mondadori –, negli Ottanta “Il Verri” lo omaggia con un numero speciale e fottio di firme, da Sanguineti a Guglielmi, da Neri a Zanzotto. Carabattole è adornato da un saggio di oltre 70 pagine di Ivos Margoni che ci ricorda costantemente l’inesauribile spregiudicatezza linguistica di Leiris (“Le Règle du jeu è senza dubbio uno degli sforzi più coerenti e organici che siano mai stati compiuti per piegare la propria esistenza agli esiti eticamente positivi dell’autoanalisi, ma il suo paradosso maggiore consiste nel fatto che per chi ne è l’autore essa è anche, nella realtà del suo farsi e del suo essere, la più dura testimonianza del fallimento della ‘confessione’ autoterapeuticamente intesa”). D’altronde, l’ala dell’edizione Einaudi è letale: Carabattole è detto “libro-confessione folgorante come i Saggi di Montaigne, maniacale e analitico come la Recherche, spietato come i Ricordi del sottosuolo di Dostoevskij”. Mancano soltanto i fuochi d’artificio. C’è da chiedersi se, artificiosamente, fossero tutti cinici e fasulli allora o siamo cretini ora, avendo barattato l’oro letterario per lo specchio per allocchi (i lettori). Pendo per la seconda.
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“Tutta la mia vita è negativa; non ho desideri ma timori; non l’idea positiva di una missione da compiere (un messaggio da portare) ma solo tabù; non disperazione ma noia; non amici ma relazioni; non piaceri ma distrazioni; non orgoglio ma amor proprio; non costanza ma inerzia; non disinteresse ma inappetenza; non credenze ma superstizioni; non rivolta ma incapacità di adattamento; non eleganza ma correttezza; non generosità ma indifferenza… Paura di tutto, voglia di niente… Muscoli molli, testa molle, sesso molle…”, scrive Leiris nel suo diario – edito da Gallimard nel 1992. Naturalmente, è seduzione al negativo, necessità di distruggersi, teatro – Leiris non sta nel covo delle mura domestiche: al viaggio africano seguono gite di studio nelle Antille, in Cina, in Giappone, dove c’è l’estremo, l’intoccabile, il selvatico –, risolto con frasi sontuose e concetti aforistici propri di una muscolare vanità.
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Carabattole, molto banalmente, è un libro mirabile, che ambisce a dissotterrare il delirio – “al di sotto della trama cosciente del mio libro… si svolge una trama che ignoro o di cui intravvedo soltanto qualche bazzecola grazie ai capricci di un’immagine o di una reminiscenza” – con uno stile da stilita dell’ego. “Mondo della veglia, mondo del sonno: entità ben distinte che, come due parallele, sono fatte per rimanere fianco a fianco, ma senza incontrarsi mai… Solo alcune luce affermavano che non tutto era assolutamente addormentato in quel mare sul quale noi eravamo un isolotto di veglia”. Magnetiche le pagine dell’amore africano per Khadigia, che a Leiris “appariva come una maga – o un demone del meriggio o addirittura come Lilith, la donna spettro nata da una polluzione di Adamo quando Dio non gli aveva dato ancora una compagna”. In una scena, i due pisciano insieme, “io in piedi e lei che accosciata dava la stura nel buio ai grossi getti del liquido che aveva ingerito in ragguardevole quantità… Più che un piacere perverso, credo che in quel totale abbandono del riserbo che sempre sussiste fra un uomo e una donna (per quanto intima sia la loro unione) io provai la contentezza di un momentaneo ritorno allo stato di natura e anche quell’impressione di toccare il fondo che mi aveva inebriato quando nella più segreta intimità Khadigia aveva trovato la prova non tanto della nostra comunione quanto del dileguarsi dei limiti delle nostre due persone sotto la schiuma delle fluttuazioni organiche più elementari”. Sano senso del corpo, estasi ingenua, biologia che brama l’estetica.
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Michel Leiris firma nel 1938 un saggio sulla tauromachia (in Italia edito da Bollati Boringhieri come Specchio della tauromachia). “Nel passaggio di tauromachia il torero, con le sue evoluzioni calcolate, la sua scienza, la sua tecnica, rappresenta la bellezza geometrica sovrumana, l’archetipo, l’idea platonica. Questa bellezza tutta ideale, atemporale, paragonabile soltanto all’armonia degli astri, è in relazione di contatto, di sfioramento, di minaccia costanti con la catastrofe del toro, sorta di mostro o corpo estraneo che tende a precipitarsi in dispregio di tutte le regole, come un cane che rovesciasse i birilli d’un gioco ben allineato quali le idee platoniche”. Minotauro e labirinto si legano come l’ordine e la sua sovversione, ma “Nessun piacere estetico è dunque possibile senza che ci sia stupro, trasgressione, superamento, peccato, relativamente a un ordine ideale che funge da regola”. Occorre uccidere il Minotauro per risolvere il labirinto in grido? Oggi, in letteratura, si ha paura del labirinto, del Minotauro, di chi, come Leiris, sa aggiogarlo, sa cavalcarlo. (d.b.)