Può essere di una bellezza disarmante, enigmatica, forse estrema, la poesia di Boris Pasternak; assomiglia semmai a un lago che brilla e balla, al ritmo di barche e imbarcazioni; grazie alla carezza del sole, mentre lo solchi su un battello leggendario che ti trascina ‒ a volte cullandoti, a volte scarmigliandoti i capelli per il soffio supponente e chiaro del vento ‒ verso un eremo millenario a picco tra la roccia e l’acqua, che, se ci pensi, è tutto quel che possiedi in quel momento: il dono della natura alla donna amata, da condividere in un nuovo crescente volersi bene, quasi come fosse lo sbocciare di un fiore accanto allo sciabordare imperterrito delle acque.
E di Pasternak, dicevo, colpisce come al solito una poesia, aprendo a caso il libro, dal titolo inequivocabile:
Vento notturno
Sono cessati i canti e il clamore ubriaco,
domani ci si deve alzare di buon’ora.
Si spengono le luci nelle isbe. Dopo
la baldoria, la gioventù rincasa.
Leggo dunque questi versi ‒ anzi, per intero la poesia ‒ alla mia musa. Dapprima con un messaggio registrato al telefono. E pochi giorni dopo, guardandola negli occhi, al riparo da tutto e dagli uomini, tra il pergolato a forma di serpente di un glicine, come a strapiombo sul Lago Maggiore che ci accoglie all’Eremo di Santa Caterina. Oppure, nascosti e soli, nella penombra di un bosco lì accanto, confidandole e mostrandole ‘la cosa più preziosa’ che porto sempre con me in una piccola busta di carta.
Ma è la poesia ciò che amiamo, e di essa il vento, il suo richiamo, l’incontrarsi con la notte: “Soltanto il vento percorre a casaccio / sempre lo stesso sentiero infesto d’erbe, / dove aveva scortato una folla / di ragazzi al rientro da una festa.”
Sono versi che appunto pongono quesiti e questioni, quando la poesia si protende nella sua danza, al ritmo per nulla improvvisato della natura: “È a capo chino fuori della porta. / Lo strepito notturno non gli piace. / Vorrebbe chiudere in conciliazione / le sue questioni aperte con la notte.”
La mia musa dunque non esita affatto a porsi e a farmi la domanda, quella essenziale, quella fondamentale: Quali saranno state poi, queste divergenze, tra il vento e la notte?
Di fronte agli steccati dei giardini
vento e notte discutono, mai domi.
Per intendere le loro divergenze
gli alberi fanno ressa sulla strada.
Così le rispondo che magari notte e vento sono amanti, o dell’amicizia eterni giocolieri. Che tutto può essere e accadere dentro e intorno a loro. E che nulla, ma proprio nulla, interferirà con la forza e determinatezza instancabili che li rappresentano.
Mentre questo accade, con il libro in mano e i grandi occhi di lei che mi guardano febbrilmente stupita, felice e ammaliata, persino gli alberi del bosco fanno ressa intorno a noi; vogliono anche loro sapere come andrà a finire di un patto svelato e che ‒ sempre, in poesia ‒ si rinnova di continuo.