“Sai che sono felice di averti ritrovato, vero? Finalmente. Troppi chili di tempo. Vengo a trovarti. Tanto stiamo vicini. Ci beviamo qualcosa. Parliamo di poesia. Facciamo il libro insieme”. La telefonata. Era domenica mattina. Ero a casa di mia nonna. La nonna è a letto, la demenza senile la devasta, vede i morti arrampicarsi alle pareti, parla con il lampadario, che per lei è una giostra piena di bambini, ci sono anche i miei figli sopra. Prima metà di ottobre. Poi lui mi dice altre cose. E io ora ho rigurgiti di vetro in gola. Vedete, questo tempo è un tempo davvero di merda. Il tipo che mi ha telefonato si chiama Danni Antonello. Poeta. Poeta vero. Cioè, di quelli troppo concentrati nell’abisso lirico per perdere tempo con la pubblicazione e la pubblicità, il valzer del farsi leggere, la leccornia dei leccaculo. Da un paio d’anni Danni s’è messo a fare l’editore. Non sapevo neanche che avesse una libreria antiquaria, ‘Scaramouche’; non sapevo neanche che stava a Macerata, io l’ho lasciato che stava in Veneto, è di Cittadella. Pensa come ci ha roso dentro, il tempo, il bastardo. L’editore si chiama “Giometti & Antonello” e ha fatto dei libri bellissimi. “In un’epoca in cui la produzione e il consumo di testi conosce un ampliamento senza precedenti, ma al contempo l’autorevolezza di autori e opere vacilla in modo quasi irreversibile e la critica tradizionale e le accademie hanno totalmente smarrito la loro funzione di filtro e di indirizzo, il ruolo dell’editore diviene quanto mai centrale”: questo l’incipit del Programma editoriale. Lucido. Nitido. Rivoluzionario. Come editore, Danni ha pubblicato, tra le rare cose, Gilles di Drieu La Rochelle e Stelle tardive di Arsenij Tarkovskij, ma io ero andato in brodo per i Quaderni di Voronez di Osip Mandel’stam. Danni mi spediva i libri. Stampa meravigliosa. Carta formidabile. Curatela eccellente. I libri arrivavano ricoperti da una pellicola trasparente. Enogastronomia libraria. L’ultimo libro che Danni ha stampato si chiama Lsd ed è il carteggio tra Ernst Jünger e Albert Hofmann, il chimico che ha scoperto le meraviglie dell’Lsd. Danni mi regala l’anteprima per il Giornale, su cui scrivo un pezzo. Una scelta di cuore. Che paga caro. In quella telefonata mi dice, tra l’altro, “sai, mi ha chiamato uno di Repubblica per avere l’anteprima di Lsd. Gli ho detto che l’avevo data a te. Lui mi fa, ‘se non la dà a me, del libro non ne scrivo’. L’ho mandato educatamente a cagare”. Ora. Danni Antonello è morto. “Muore nella sua libreria a 39 anni. È successo ieri notte in piazza Mazzini”, scrive la pagina maceratese del Resto del Carlino, “non viene esclusa l’ipotesi che il decesso possa essere ricondotto a overdose di stupefacenti”, è scritto. Ora. “Ieri notte” risale a più di un mese fa, la notte tra il 21 e il 22 ottobre. Oggi è il 28 novembre. Oggi leggo un messaggio di Gian Ruggero Manzoni, “Reputo che tu abbia saputo che Danni Antonello è morto”. E no, porca puttana, non lo sapevo. Anzi mi stavo pure incazzando perché Danni, stralunato come sempre, con la clessidra spappolata in testa, s’è dimenticato di passarmi a trovare. Ora. Lasciamo perdere che io sia un cretino. Ma di mestiere mi occupo di cultura. Perché nessuno mi ha detto niente? Perché in Italia un poeta, un poeta vero, muore come un cane. Guardo in giro. Un articolo di Giuseppe Allegri sul Manifesto, una nota di Davide Nota su Huffington Post, un ricordo su Radio Rai 3. Stop. Nessuna poesia sul Corriere della Sera, nessun articolo in prima pagina sui quotidiani nazionali. In Italia un poeta, a meno che non sia stato già falciato dalla vita come Pierluigi Cappello e non sia giustificato editorialmente dalla prefazione di qualche benevolo cantautore, muore come un cane. Il poeta, in Italia, se fa il poeta, cioè se non pubblica e non si inchina ai potentati della cultura italocretina, muore come uno degli ultimi, come una merda, e gli spaccano pure la faccia a calci e non c’è nulla di ‘cristico’ in questo né di religioso o di mistico – del tipo ‘il poeta l’agnello sacrificale della società’ – c’è solo lo schifo, l’odore d’urina del nuovo millennio, il clangore di quelli che chiacchierano e fanno la storia. Davvero, è un mondo di merda quello in cui Luigi Di Maio e Matteo Renzi e Matteo Salvini – per me si equivalgono tutti, verso lo sfacelo – appaiono tutti i giorni sui tiggì, e Danni Antonello sia disintegrato dall’oblio, è un mondo di merda quello che ricalca le parole del primo politico che passa e ignora, volutamente, con colpevole voluttà, il poeta. L’ultima volta che ho visto Danni è stato nel 2004. Detto oggi, 2004 pare la battaglia di Canne. Oggi di Danni conservo quella telefonata e una manciata di mail. “Per quanto riguarda la poesia vorrei parlarti di persona non appena possibile. Prima o poi mi fermo a Rimini andando verso nord. Ho molte cose su cui mi vorrei confrontare”, mi ha scritto, e ora mi sembra un messaggio cifrato e cuneiforme dall’aldilà. Nel 2004 ci aveva convocato Gian Ruggero Manzoni, a Lugo, per fondare “una metavanguardia” e ragionare su un libro. Il libro si intitola, in modo programmatico, Oltre il tempo, lo ha stampato Diabasis. Danni scrive un testo abbagliante, letto oggi fa tremare i polsi e scassa la mascella, che dice che si è poeti solo se si è disposti a morire – letteralmente – per la poesia. Ecco:
Nerval fu trovato una notte in Rue de la Vielle Lanterne appeso a una corda, Mishima si sventrò davanti a una telecamera sopra il tetto di un grattacielo, Pavese, all’hotel Roma, prima di addormentarsi, perdonò tutti e a tutti chiese perdono, Hikmet a vent’anni era stato ospite nei più sontuosi palazzi d’Europa e nelle peggiori carceri turche, Genet, graziato da De Gaulle, una volta uscito dalla galera scrisse solo per il teatro, Carmelo Bene gridava che il teatro è galera. A ventiquattro anni Rocco Scotellaro fu fatto sindaco dai contadini, poco tempo dopo volava via, lasciando all’Amelia Rosselli solo quel baratro che lei avrebbe portato in grembo per altri trent’anni prima di ricongiungersi a lui, volando nel baratro. Trakl, Vaché, Wilfred Owen e tutti quelle delle trincee non tornarono dal fronte, il pazzo di Marradi avrebbe voluto andarci a giocare al soldato, ma a lui, come a Gino Rossi, toccò in sorte unicamente un sasso su cui sedersi e aspettare, entro un manicomio di provincia. Ligabue non sapeva né leggere né scrivere, Sandro Penna non voleva né leggere né scrivere, amava gli efebi e la giovinezza che non tradisce. Pasolini dalla giovinezza fu trucidato a bastonate. A Marsiglia, dopo la Via Crucis, il veggente contadino scoprì che ad attenderlo c’era un altro calvario, marcì nel corpo comme le pauvre Lélian e marcì nell’animo. Se Lenin vivo, Majakovskij avrebbe continuato ad urlare ‘io’ e la rivoluzione non sarebbe diventata un mausoleo, Hasek avrebbe forse trovato anche lui, come Hrabal, un suo re d’Inghilterra da servire. Artaud, a Jvry-sur-Seine, implorava il medico di non togliergli il piacere della morfina, Modigliani senza fumo non dormiva, René Crevel senza morfina, fumo e rivoluzione scelse la sua pace. Keats e Shelley e un secolo dopo Radiguet avrebbero voluto vivere, ma in ogni caso pace non avrebbero trovato.
Badate brava gente non c’è un filo di romanticismo o di filisteo eroismo in quello che voglio dirvi. Il mondo, questo, questo Occidente, è merda. I poeti vivevano male 2mila come 200 come 20 anni fa. Ma, vedete, ora c’è qualcosa di più sottile. Sottile come un filo di rame intorno al collo. Il poeta, ora, non è degno di andare al Senato come non è degno di essere conficcato nei Gulag. Il poeta, oggi, il poeta vero, quello che non fa le smorfie via social e non bazzica i salotti buoni tra l’ecolatria dei codardi, indegno, indesiderato, muore come un cane, aureolato dall’indifferenza, i giornali non ne parlano, i posteri li ignoreranno, fatte salve le cerimonie più o meni vere, più o meno bibliografiche degli amici. Il poeta muore e tutti se ne fottono e la sua parola è bestemmia di capra. Che schifo. Quando l’ho conosciuto, Danni era piccolo, magrissimo. Quando muore, Danni ha 39 anni. Nella telefonata, mi parlava di sua figlia. Io dei miei figli. Nel 2004 mi faceva leggere le sue poesie. Pianura delle nebbie atroci. “Temo le tenebre bambine/ quando calano a novembre/ qui tra l’erba alta/ io sto nascosto”. Danni quando l’ho conosciuto aveva la faccia di ceramica e due occhi umidi. Una fiondata di purezza in questo mondo di merda. Mi pareva così, è così.
Davide Brullo