La casa è su un’erta, a mezzo bosco. A mezz’ora di cammino, a piedi, sboccia la rocca di Montefiore, fortezza malatestiana d’inaccessibile potenza, artiglio di pietra contro l’azzurro, che fu anche di Cesare Borgia. Alex viene dal Canada, ha piantato qui da un anno la sua famiglia; prima stava a Bologna, avrà pressappoco trentacinque anni, i baffi complicano l’età in un avvenire conradiano. Da questa irosa terra trae cespugli di bietole, spinaci, carote, pomodori, patate, fave e piselli in quantità: sostiene sé e i vicini. Ha anche una manciata di galline. Un giorno, racconta, hanno dimenticato di innescare il recinto elettrico: la faina reclamò sterminio. Affascina l’intelligenza della faina, che fa la posta ogni notte, nello stesso posto, e confida nell’errore dell’uomo, nella sua scarsa cura. Un giorno si sono rifugiati in casa al cospetto di uno sciame d’api che si annodava e snodava come una galassia. La regina aveva scelto di trovare nuova dimora.
Alex coltiva i campi con l’estro del rivoluzionario: non gli piace questo mondo, se ne costruisce uno per sé. Ha chiamato il figlio Zeno: come l’imperatore bizantino che assiste alla fine dell’Impero romano d’Occidente, mi dice. Quando il bimbo fa il broncio gli ricorda, “sei solo nell’universo, figlio mio, nessuno può consolarti…”. Pillole di esistenzialismo bebè. Un paio di giorni alla settimana, Alex insegna storia alle classi superiori di una scuola di Londra, on line. Alla solita minestra da manuale, alterna una storia alternativa, quella dei regni africani di Congo e Nigeria, ad esempio, che, dice, è interessantissima. Ogni tanto, afferra il violino e attacca un blues.
Alex legge molto. Ama Thomas Pynchon e David Foster Wallace; mi fa i nomi di qualche scrittore canadese, che non conosco. Tra tutti, mi dice, preferisce Patrick Senécal, classe 1967, viene dal Québec, il Canada francese. Mi informo. Senécal è, sostanzialmente, uno scrittore ‘di genere’, orientato all’horror. Un servizio della CBC ha avvicinato la sua opera a quella di Stephen King; uno dei suoi libri più noti, Sur le seuil, è stato tradotto in Italia dalle edizioni Nord come Una mente pericolosa (2008). I suoi libri vengono tramutati, spesso, in film; l’ultimo romanzo, Civilisés, è uscito quest’anno. Il primo, 5150, rue des Ormes, tradotto in tedesco, turco, polacco, è uscito trent’anni fa. Devo dire che il profilo del personaggio – canonico autore di libri di facile lettura – non mi tocca. Nel suo profilo biografico – liturgica noia fitta di titoli di libri e premi vinti, in cui coincide, di fatto, l’uomo con lo scrittore – compare questa frase:
“Perché inventare tentacolari mostri, demoni o vampiri quando abbiamo gli uomini?”.
Alex, che si lascia avvincere da una scrittura ‘sperimentale’, mi dice di sfogliare soltanto un libro di Patrick Senécal. S’intitola Contre Dieu, è uscito in origine nel 2010, l’edizione inglese fa capo due anni dopo come Against God. È il libro più audace dell’autore canadese, secondo Alex il più bello. Vi si racconta di un uomo, senza nome, che perde, in un drammatico incidente, moglie e figli; la tragedia lo sconvolge, fino a tramutarlo in un ferino alfiere del caos. Più che la trama, è l’idea formale che regge il romanzo a conquistare. Dopo i preliminari – una telefonata che prepara l’evento – il romanzo si sviluppa entro un’unica frase, che sdipana la storia per un centinaio di pagine. L’escamotage non è nuovo – al di là di effrazioni faulkneriane, abbiamo un notevole esempio italiano: Matilde di Giovanni Mariotti, uscito da Anabasi nel 1993, poi divenuto Storia di Matilde, Adelphi, 2003 –, diverso è l’uso che se ne fa. Qui lo scrittore incalza il lettore, intimato con il tu, come fosse lui il fulcro, in picchiata, della vicenda. Il codice sdoppiato – unica frase; tu intimidatorio – serve a tracciare la mappa di una mente in delirio, a sorprenderne epifanie ed esclusività. Il libro – non per forza memorabile – avvince meglio di tanta furfanteria di scrittori sedicenti colti; qui ne traduciamo le prime pagine, a ritmo di cobra.
Come tutti gli anglosassoni, Alex ha la quieta certezza di poter far tutto: se gli dicessero che domani dovrà varare un cargo a Oslo, accetterebbe l’incarico con un sorriso. Saprebbe far fiorire il ferro e costruire una casa in Groenlandia: ogni luogo gli è casa, perché la sua casa ha una parentela molto più profonda di quella visibile. Potrei pensarlo un Robinson, ma da lontano, per quella rapidità con cui passa dalla terra al blues, mi ricorda Stevenson, un cantore di mari.
*In copertina: Alex Colville, Seven Crows (1980)
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Da Contre Dieu, di Patrick Senécal
La giornata è andata bene…
Molto meglio. La mamma, come sta?
Sta bene. Francamente, mi stupisce. Te la saluto.
Auguragli la buonanotte da parte mia. Partirete presto?
Tra due minuti. Dobbiamo mettere i cappotti. Non nevica, ma voglio essere a casa entro un’ora. Hai cenato?
Ora. Ho scaldato una torta salata.
Come sempre… e al negozio?
Se conti che è stata una domenica di sole, benissimo. Tutti venivano a comprare degli sci. Il prossimo autunno andremo in Florida per tre settimane, invece che due…
Davvero?
Conviene lavorare la domenica.
Come se i tuoi dipendenti non sapessero cavarsela senza di te!
Sono essenziale. E lo sai.
Proprio così. I ragazzi vogliono parlarti.
Passameli.
Ciao papà.
Ciao alta. Hai fatto la brava con la nonna?
Sì. Ci ha riempiti di cioccolata. Mi ha dato la paga. Quattro dollari perché ho quattro anni.
Sei fortunata.
Ti voglio bene papà, non vedo l’ora di vederti.
Anch’io, ragazza.
Ti passo Alexis.
Papà…
Ciao campione. Tutto bene con la nonna?
Sì.
Ti ha dato dei dolci, mi pare.
Molti.
Ne hai conservati un po’ per me?
No. Li ho mangiati tutti.
Ah, mio ingordo! Ti voglio bene. Passami mamma.
Va bene, ora vado. Prendo un film per questa sera.
Buona idea. Fermati alla videoteca sulla strada.
Non vedo l’ora di vederti.
Anch’io.
e tutto comincia quando vai ad aprire la porta e ti trovi di fronte a due poliziotti che ti fissano come se portassero sulle spalle tutta la miseria umana del mondo e ti chiedono come ti chiami e la tua risposta non cambia l’espressione dei loro volti, che si abbassano di qualche centimetro, allora aspetti, la mano sinistra sulla maniglia, la destra chiusa sul telecomando, e chiedi cosa è successo e ti chiedono se tua moglie si chiama Judith Péloquin e dici di sì, lo dici con forza, ma la voce trema, comincia a tremare quando ripeti il tuo nome,
Criss, cosa sta succedendo?
domandi e uno dei due finalmente osa fissarti negli occhi, ti spiega e tu ascolti, prima incredulo, poi è la paura a primeggiare e poi il rifiuto, è ovvio, l’antica difesa di fronte a ciò che non vuoi accettare, e dici che è impossibile, le hai parlato un’ora fa, lo dici con il tono di chi non accetta sfide, ma l’agente chiarisce che li hanno trovati mezz’ora prima, ma tu gridi no, no, no, lo gridi più volte, no, no, no, e vorresti chiudere la porta ma ti fermano, cercano di calmarti, con dolcezza, ma tu ti allontani, attraversi la stanza, urli, urli che è un errore, hai ancora in mano il telecomando, la tivù trasmette ancora quel dvd sportivo che ti piaceva, cinque anni fa, e poi all’improvviso le gambe non reggono, all’improvviso crolli, cadi, cadi, precipiti, le ginocchia a terra, i singhiozzi, le grida, le mani che rintracciano i capelli, e dei discorsi della polizia ricordi solo la fine, che bisogna identificare i corpi, e allora, sì, salti in piedi, li vuoi assolutamente vedere, li vuoi vedere ora, e sali sull’auto della polizia e vai all’ospedale ma quando ti mostrano il corpo di Judith l’eccitazione febbrile si dissolve in un vano, amaro turbinio che si sparpaglia nell’universo, e quando riconosci Béatrice ritorni a piangere, ma non riesci a riconoscere il terzo corpo, è certamente un bambino di due anni all’incirca, ma come fai a sapere se è Alexis, il viso è così sfigurato, così disfatto, ma alla fine noti la voglia sulla coscia sinistra e allora è il caos a prenderti, penetri nell’isteria tanto che devono iniettarti un sedativo per farti dormire tutta la notte e ti svegli in un ignoto letto d’ospedale, volti la testa e Jean-Marc, il fratello maggiore di Judith, è lì, la cravatta slacciata, l’aria inerte, pallida, si accorge del tuo risveglio e ti abbraccia e piangete insieme, per un attimo, ma tu vuoi capire, tu vuoi sapere e chiedi spiegazioni e Jean-Marc te le dà, inaridito dal dolore, poi si interrompe per soffiarsi il naso ma tu hai capito l’essenziale, l’auto di Judith caduta nel burrone, la solita strada dalle curve possenti che hai preso così tante volte, quella curva stretta che conosci così bene, e l’auto che rotola, si schianta poco più in basso, su un muro di pietra, Judith che sbaglia la curva, oppure un’auto, di fronte, che la prende troppo larga e Judith che tenta di evitarla, i poliziotti non hanno ancora capito ma optano per la prima ipotesi, d’altronde c’era ancora un sottile strato di ghiaccio sull’asfalto e se fosse rimasta coinvolta un’altra automobile probabilmente si sarebbe fermata, la polizia comunque continuerà a indagare, ma tu non ascolti più nulla, volti lo sguardo verso la finestra, sei disorientato, dici che non puoi occuparti delle formalità del funerale, dici che ne sei semplicemente incapace e scoppi in lacrime e dici che è troppo, tutto è troppo, troppo, e Jean-Marc ti prende il braccio, dice che si occuperà lui di tutto, Jean-Marc è sempre stato così generoso, così disponibile, e lo fissi con un po’ di perplessità, con una mistura di rabbia, volti la testa, lo sguardo è lontano, nebuloso, verso qualche inutile astro, il silenzio, le verdi pareti, le voci nel corridoio, qualcuno che tossisce, poi, finalmente, parli,
Voglio che il funerale avvenga rapidamente, prima della fine della settimana, il prima possibile.