24 Novembre 2021

“Conta i minuti della sua dannazione chi ama e sospetta”. Una lettura dell’Otello di Shakespeare

Prima di parlare della bella interpretazione che il filosofo americano Stanley Cavell dà dell’Otello di Shakespeare nel suo libro La riscoperta dell’ordinario è forse meglio fare un brevissimo ripasso dell’opera. Otello è un moro al servizio della repubblica veneta, follemente innamorato della moglie Desdemona, con la quale è sposato fin dal primo atto. Tuttavia Otello, i cui dubbi sono continuamente alimentati dal suo alfiere Iago, comincia a dubitare della purezza della moglie la quale è sospettata di tradimento.  Accecato dalla gelosia e istigato da Iago, Otello arriva ad uccidere Desdemona. Ma consumatosi l’omicidio Emilia, moglie di Iago, rivela che l’infedeltà di Desdemona era soltanto un’invenzione del marito. Appresa la notizia Otello,  logorato dal rimorso, si toglie la vita portando a compimento la tragedia. 

È interessante la lettura che Cavell dà di quest’opera, perché, nonostante ne rispetti l’aspetto puramente estetico, riconosce (e pochi si ricordano di farlo) che questo non è mai fine a se stesso. Esattamente allo stesso modo in cui un autore non si potrebbe mai mettere a scrivere un opera per puro diletto, come se questa non gli sgorgasse direttamente dal cuore. Il collegamento extra-letterario esplicitato in questo caso è legato ad un problema epistemologico, e precisamente il problema epistemologico del solipsismo. Questo si pone nel momento in cui ci si accorge che non è possibile dedurre dai corpi degli altri la mente degli altri, e dunque l’esistenza degli altri. Il dubbio che affligge Otello sul tradimento di Desdemona sarebbe dunque, in realtà, un dubbio solipsistico? 

Il problema del solipsismo sorge per la prima volta con Cartesio, quando nelle Meditazioni metafisiche il dubbio metodico lo porta a mettere in discussione l’idea stessa di io. Cartesio poi si libera del dubbio con la dimostrazione dell’esistenza di Dio, un Dio buono, che non lo ingannerebbe mai, e che si fa quindi garante dell’esistenza del mondo. L’esistenza degli altri è quindi fatta dipendere dall’esistenza di Dio.                                                                                 

Cartesio qui è paradigmatico di quel soggettivismo proprio della metafisica: il problema di quest’ultima è sempre stato quello di non voler riconoscere la finitezza dell’umano, per questo essa ha sempre descritto verità che fossero a portata di conoscenza. Non a caso la tendenza metafisica moderna è fatta coincidere con una tendenza al soggettivismo, cioè al voler conferire al soggetto la capacità di una conoscenza assoluta. Nella dimostrazione di Dio da parte di Cartesio c’è tutta l’arroganza, la pretenziosità, di voler conoscere Dio e quindi di essere Dio (la conoscenza così intesa è appropriazione, controllo). Le linee di convergenza tra i due casi in paragone (Cartesio e Otello) possono cominciare a intravedersi se si pensa che, classicamente, se si amasse davvero qualcuno se ne dovrebbe rispettare la libertà, e dunque l’alterità. E questo amore non dovrebbe pretende per sé quel tipo di conoscenza che invece Cartesio (e Otello?) pretende: una conoscenza totale, che non lascia spazio a dubbi. 

Cavell mette in luce il nesso tra la conoscenza di Dio e il dubbio scettico: se conosco Dio conosco anche gli altri, viceversa, non li conosco (sono cioè scettico sulla loro esistenza, non ne ho la prova). Ma – e questo è essenziale – dall’idea di Dio non dipende soltanto l’idea degli altri, ma anche l’idea stessa dell’io: “L’idea nietzscheana della morte di Dio, in prima battuta può essere interpretata grosso modo così: l’idea di Dio fa parte della natura umana; dunque, se l’idea di Dio muore, muore anche l’idea di natura umana. Così, non solo il fatto della mia esistenza, ma anche l’integrità della mia esistenza dipendono da questa idea e le meditazioni di Cartesio concernono in ultima analisi la conoscenza di sé: descrivono cioè il percorso mediante il quale un io umano si riconosce come tale.” E non è un caso a questo punto che l’annuncio della morte di Dio coincida con quella che nel Novecento è stata chiamata “la crisi del soggetto”.

E a questo punto viene davvero da chiedersi cosa centri tutto questo con l’Otello di Shakespeare. Poniamo le cose in questo modo: Otello è Cartesio, Desdemona è Dio, Iago è il dubbio scettico. Se Otello, istigato da Iago, dubita di Desdemona rinuncia anche alla sua integrità (alla sua perfezione). Perché l’immagine perfetta che Otello ha di sé dipende dall’immagine perfetta che egli ha di Desdemona (tanto che morta Desdemona, deve morire anche Otello); esattamente come la legittimità delle idee di Cartesio dipende dall’esistenza di Dio.

Le cose vengono in chiaro se ci si permette di leggere l’Otello come la versione tragica delle Meditazioni metafisiche, in cui Cartesio non risolve il dubbio scettico e perde (ossia uccide) l’idea di sé e degli altri. O se, viceversa, si ipotizza un finale alternativo – non tragico – all’Otello, in cui il protagonista riesce a fare l’unica cosa che gli permette d’essere definitivamente certo dell’esistenza di Desdemona, ossia conoscerla totalmente, cioè inglobarla (che è quello che fa Cartesio con Dio). In questa versione l’Otello non sarebbe stata la tragedia shakespeareana che oggi conosciamo, ma l’ennesima favola metafisica in cui Dio, alla fine, si risolve nella conoscenza del soggetto. Letta come la stiamo leggendo la tragedia ci racconta quel che sarebbe successo a Cartesio se non fosse riuscito a dimostrare l’esistenza di Dio.

Ma a questo punto – e in questo la lettura di Cavell è illuminante – avviene un passaggio interessante: la tragedia narrata non consiste nel fallimento, da parte di Otello, nel dimostrare l’esistenza (ossia la fedeltà) di Desdemona, ma nel mancato riconoscimento dell’alterità di quest’ultima. La tragedia deriva cioè dal mancato riconoscimento dell’altro, un altro radicalmente “altro” da me, e sintomo della mia finitezza. E quindi alla fine è il mancato riconoscimento della propria finitezza che causa la tragedia.  

“Quel che voglio dire è che secondo me dobbiamo prima chiederci che cosa intendiamo per scetticismo, nella fattispecie dobbiamo chiederci se davvero sappiamo che cosa significa sapere che un altro esiste. Se c’è una cosa di cui Otello è sicuro, è che Desdemona esiste: è fatta di carne e ossa, è separata da lui, è altro. Ma è proprio questa possibilità a torturarlo. Quel che lo tortura è esattamente la premonizione che l’altro esiste, e che quindi anch’egli esiste, che la sua è un’esistenza vincolata e parziale. E a mio avviso, inoltre, la sua professione di scetticismo nei confronti di Desdemona e della sua fedeltà serve in realtà a nascondere una convinzione più profonda: un dubbio orribile serve in altre parole a occultare una certezza ancor più orribile, una certezza inconfessabile. Il che mi riporta all’ipotesi di fondo, sulla causa dello scetticismo, che sta dietro a tutto quello che ho detto fino ad ora: lo scetticismo è un tentativo di tramutare la condizione umana, vale a dire la condizione dell’umanità in un problema o in un enigma intellettuale (per interpretare la finitezza metafisica in termini di deficienza intellettuale).

L’Otello sarebbe dunque la storia di un mancato riconoscimento, travestito da un dubbio (che in questo caso è più comodo della verità), che è il mancato riconoscimento della propria finitezza, al quale segue il mancato riconoscimento dell’altro e di Dio (ma di un Dio “vero” questa volta, non quello cartesiano, che in quanto Dio metafisico è un uomo sotto mentite spoglie).    Verrebbe quasi da immaginarsi Cartesio che, nel mentre è preso dai suoi grattacapi solipsistici, sospetta e diffida di tutti, arroccandosi nella sua fortezza che più che dal dubbio, sembra causata dall’arroganza. Ma in realtà, come Nietzsche ha tentato di mostrare, riconoscere questa finitezza non è la tragedia, tanto che la morte di Dio non porta al nichilismo, quanto piuttosto a un superamento dell’umano. Dell’umano integro (non finito) che Cartesio ha cercato e che Otello ha disperatamente voluto, ma che non ha ottenuto perché non ha saputo resistere al dubbio (o alla verità, ch’egli sapeva, in cuor suo). 

“In altre parole, la morale è che tutti questi temi dovrebbero essere oggetto di riflessione e di moderazione, piuttosto che di tortura e di assassinio, che tutti dovrebbero alimentare gioia e compassione oltre che pietà e terrore. Non sono di per sé tragici, siamo noi che li rendiamo tali, considerandoli tali. Siamo noi a diventare tragici, quando consideriamo in modo tragico le cose. Mentre dovremmo prendere le nostre imperfezioni con saggezza, con una saggezza gaia e civile, e non con quell’eloquenza oscura che ci isola dei nostri simili.

E qui è interessante fare una piccola parentesi e dire che Iago, per come Cavell lo descrive, “è l’inventore e il manipolatore delle apparenze”, è la tentazione incarnata e la strada per il peccato (che è ciò che Otello commette uccidendo Desdemona). Ma che cos’è il peccato, se non il frutto di un mancato riconoscimento? Di una mancata ammissione? E di contro: cos’è il pentimento se non il riconoscimento e l’ammissione di una colpa? È qualcosa su cui si dovrebbe riflettere, senza arrovellarsi troppo sul concetto di “colpa” che, lungi dall’essere qualcosa che si è fatto è – paradossalmente – qualcosa che non si è fatto, ossia che non si è, e che dunque ci limita e ci rende imperfetti, potenzialmente colpevoli. Tra l’altro è anche interessante notare che se si riconosce la propria finitezza (cioè si ammette la propria colpa) si viene anche a capo del dubbio solipsistico. Se cioè si ammette la proprio finitezza come sintomo del fatto che si è composti anche da altro, allora il problema dell’altro proprio non si pone. 

“Oh, guardatevi dalla gelosia, mio signore. È un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre. Beato vive quel cornuto il quale, conscio della sua sorte, non ama la donna che lo tradisce: ma oh, come conta i minuti della sua dannazione chi ama e sospetta; sospetta e si strugge d’amore!”

La gelosia e il sospetto di cui parla Iago in questi bellissimi versi appartengono a un amore che più che amore è volontà di possesso e manipolazione. Ma il vero amore, come sopra, più banalmente, ho cercato di dire, non riguarda il possesso. E chi ama davvero “non conta i minuti della sua dannazione”, ma, eckhartianamente, è proprio “tirato fuori dal tempo”.

Strano intreccio, a conti fatti, lo ammetto, ma la lettura, fedele o no, secondo me è interessante. E poi le letture non devono essere “fedeli” (la letteratura non è giornalismo), ma vere (e questa accezione di vero ha qualcosa a che fare col “risuonare”, nel senso di “concordare”). 

Bianca Cesari

Gruppo MAGOG