Noè prima di essere Noè è stato, nella tradizione babilonese, Xisusthros. In effetti, il diluvio universale raccontato nella bibbia (Genesi 6, 18 e sgg) è stato prima di tutto il diluvio babilonese di cui si trova riscontro nei mattoni a caratteri cuneiformi (del 2000 a.c) della biblioteca reale di Assurbanipal a Ninive. Nel racconto babilonese è detto che Xisursthros (Noè) sbarcato sulle falde del monte Nagir dopo una navigazione di quattordici giorni, offrì un sacrifico agli dei, e «gli dei sentirono il sapore, gli dei sentirono il buon sapore, gli dei accorsero come mosche al sacrificio».
Il paragone tra dei e mosche non deve destare troppo stupore: “gli assirobabilonesi sono stati inventori di tutti quegli esseri alati, teriomorfi ed antropomorfi, aleggianti tra cielo e terra; i quali sono pervenuti, come angeli, arcangeli, cherubini e serafini, mediante la bibbia nel cristianesimo”. Chi scrive è Giuseppe De Lorenzo, che è stato un filosofo e studioso italiano (1871-1957) e ha prodotto una minuscola operetta pubblicata nel 1992 da Colonnese, la quale conduce, in una sorta di percorso investigativo, a scoprire il ruolo della Mosca nella storia e nella letteratura.
L’immagine del dio-mosca che ronza dal cielo fino alle terra per abbeverarsi all’agnello sacrificato è presente anche alle origini di un’altra tradizione religiosa: nei Veda (scritti sacri, riferimento di tutta la tradizione induista) il vate dice agli dei: «voi accorrete come mosche alle nostre libazioni». In realtà, nonostante paia che le mosche si siano trasformate in angeli passando dalla cultura babilonese a quella cristiana, quest’analogia è paradossale: uno dei significati etimologici di Belzebù (uno dei principali demoni secondo il cristianesimo medioevale) è proprio ‘signore delle mosche’ (da Baal che in fenicio è ‘signore’ e Zebub che è ‘mosche’). E a dir il vero non è solo nella tradizione cristiana che è presente questo accostamento demone-mosca: in molte culture antiche, in particolare quelle orientali, le mosche sono esseri imperfetti che portano degradazione ovunque e contaminano il cibo e gli animali. Non a caso nel Jataka 357 (serie di storie antecedenti alla vita del Buddha) si racconta che una mosca carnaria “depose le uova nelle orbite di un elefante, accecato da un corvo, sì che le larve, schiudendo e rodendone le carni ed i nervi, spinsero alla disperazione e alla morte il grande elefante selvaggio”.
Luciano di Samosata scrittore greco satirico vissuto nel II secolo d.C., sembra collocarsi diversamente rispetto a questa visione demoniaca che la tradizione religiosa nutre per la mosca. Egli scrisse addirittura, in tutta la sua stranezza, l’encomio della mosca. Lì si riporta (oltre a bizzarri elogi circa le apparentemente sorprendenti capacità riproduttive delle mosche) che qualcun altro ha visto negli esserini volatili un che di divino e (in questo caso i due termini vanno braccetto) eroico. Infatti, se non è l’immagine di un dio allora è forse quella di un semidio, se così può essere descritto il prototipo di eroe che Omero canta nell’Iliade. Nel canto secondo dell’Iliade gli eroi achei, da Agamennone incitati alla battaglia, sono descritti come
Somiglianti a sciami, che brulican, fitti, di mosche
che dei pastori vanno girando qua e là pei tuguri,
a primavera, quando riboccano i secchi di latte.
E poi ancora i troiani alla morte del semidio Serpedonte:
D’intorno al corpo correvano,
Come le mosche
ronzano dentro un ovile d’intorno alle
Secchie ricolme
E Menelao invece nel XVII canto è rinvigorito di forza da Pallade Atena la quale
Nelle spalle e nelle ginocchia vigore
gli pose,
E in seno ardir tenace gl’infuse, quel è
Della mosca
Che più la scacci, e più ritorna alla
carne dell’uomo,
Avida a punger, che il sangue dell’uomo
le par troppo dolce.
Queste tracce della mosca si ritrovano poi anche qualche secolo più tardi nel Re Lear di Shakespeare, dove all’inizio del quarto atto, Gloucester prorompe dicendo: «As flies for wanton boys, are we to the / gods; / they kill us for their sport» (come mosche per giocosi bambini, cosi siamo noi per gli / dei; / essi ci uccidono per loro gioco). E così ancora la sorte della mosca si ribalta, da dio affamato a demone si degrada poi a uomo (o l’uomo si degrada a mosca); nel ’900 Pirandello addirittura le concede il titolo di una novella (appunto: La mosca). Qui il demone alato prende le sembianze di una morte che ronza e si sfrega le mani (da mosca eroe omerico ci siamo infilati nelle bassezze di una morte “da mosca”) facendosi omicida e al tempo stesso rivelatrice (e realizzatrice) dei più bassi pensieri:
“in una lurida stalla giace moribondo, per carbonchio inoculatogli da una mosca, il contadino Zarù. […] ‘mentre il medico parlava, il Zarù aveva voltato la faccia verso il muro. Nessuno lo sapeva, e la morte era intano lì, ancora; così piccola, che si sarebbe appena potuta scorgere, se qualcuno ci avesse fatto caso. C’era una mosca, lì sul muro, che pareva immobile; ma a guardarla bene, ora cacciava fuori la piccola proboscide e pompava, ora si nettava celermente le due esili zampe anteriori, stropicciandole tra loro, come soddisfatta’. Zarù che ha appreso essere quella mosca la causa della sua morte atroce, la fissa ed agogna in cuor suo, che vada ora a pungere il cugino Neli. Perché egli deve morire ed, invece, il cugino Neli vivere, sposo felice? La sua brama feroce viene soddisfatta. La mosca col suo odorato finissimo, ha sentito l’odore del sangue rappreso su una scalfittura che Neli s’è fatta sulla faccia, radendosi la barba: ‘Ecco, era andato a posarsi sulla guancia di Neli. Dalla guancia, lieve lieve, essa ora scorreva in due tratti, sul mento, fino alla scalfittura del rasoio, e s’attaccava lì, vorace’. Ecco tutto. Il voto dell’uomo, di voler far morire l’altro uomo, è esaudito. La mosca li uccide entrambi”.
A questo punto forse, chi per adesso chiude (o lascia aperto) il cerchio di queste tracce della mosca è (quello che si stava tutti aspettando) Il signore delle mosche di William Golding, romanzo epocale che forse Giuseppe De Lorenzo non ha avuto il piacere di leggere essendo stato pubblicato solo tre anni prima della sua morte. Nella scena topica i ragazzi bloccati sull’isola sono appena riusciti a cacciare ed uccidere un maiale: Jack impala la sua testa nel terreno con il famigerato “bastone con la punta da tutte e due le parti”.
“Dopo un po’ si alzò; tra le mani reggeva la testa gocciolante della scrofa. Jack sollevò la testa e infilò nella gola morbida l’estremità aguzza del palo, che penetrò fin dentro la bocca. Fece un passo indietro e la testa rimase lì, impalata, un po’ di sangue sgocciolava lungo il bastone. D’istinto, i ragazzi si ritrassero anche loro, e un silenzio profondo inondò la foresta. Rimasero in ascolto, ma l’unico rumore che sentirono fu il ronzio delle mosche sulle interiora ammucchiate. Jack mormorò: «tirate su il maiale». Maurice e Robert infilzarono la carcassa, sollevarono il peso morto, ed erano già pronti. Zitti, in piedi accanto al sangue oramai secco, apparivano guardinghi. Jack parlò a voce alta «questa testa è per la bestia. È un dono.» Il silenzio accettò il dono, e un timore reverenziale li invase. La testa rimase lì, gli occhi opachi, un lieve sogghigno, il sangue nerastro a coagularsi tra i denti. […] Il mucchio di budella era un bubbone nero di mosche che ronzavano con lo stridio di una sega. Dopo un po’, queste mosche scovarono Simon. Ormai satolle, si posarono sui suoi rivoli di sudore e bevvero. Gli fecero il solletico sotto le narici gli giocarono alla cavallina sulle cosce. Erano nere e di un verde iridescente, e infinite; e di fronte a Simon il Signore delle Mosche sogghignava, infilzato sul palo. Alla fine, Simon si arrese e riaprì gli occhi; vide i denti bianchi e gli occhi opachi, il sangue – e il suo sguardo fu catturato da quell’epifania antica, ineluttabile. Nella tempia destra di Simon, una vena comincio a pulsare, batteva sul cervello”.
Bianca Cesari