“Che problemi hai, Stone? Di nuovo quella piastra metallica nella testa?”, e qui siamo a pagina 306, a cena con Gore Vidal, il quale lega i nervi tesi di Oliver Stone a un ipotetico danno cerebrale riportato in Vietnam. Senza dubbio Stone non è un tipo tranquillo, non lo è in tutte le 535 pagine in cui denuda i primi 40 anni della sua vita. E però, Stone, tu qualche problema ce l’hai: chi te l’ha fatto fare, a esporti, così, palle e pelle, pistola puntata alla testa e dito sul grilletto? Sul patibolo, tu, che sei stato un assassino. In Vietnam, in guerra, Stone non ha subìto danni cerebrali, ‘solo’ una pallottola che gli ha trapassato il collo e schegge di bombe tra cosce e natiche, ma: in Vietnam Stone ha ucciso, quanto non lo sa, ma uno sì, un vietcong a cui ha tirato una granata. Per poi correre a vederlo, morto, bruciato, spento nella sua fine. Fissarlo. E rallegrarsene. Di averlo ucciso e ‘sentire’ che sei vivo. Respiri. Continui. E lui no: “Mi porterò dietro quel momento fino all’ultimo dei miei giorni, lo rivedo in continuazione davanti a me. Non so. Non provo senso di colpa. In guerra è così che funziona”.
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Che problemi avevi, Stone, per lasciare a 19 anni Yale, di punto in bianco, per essere per tuo volere un numero tra gli altri di una fanteria dove si è carne da cannone ed è difficilissimo uscirne vivi, di più, interi. Carne da macello in mezzo agli ultimi. Che avevi in testa, Stone, per firmare quel foglio, non dirmi la rivalsa, il dolore per il divorzio dei tuoi avvenuto anni prima, quand’eri 15enne e va bene, potevano dirtelo più cautamente, ma non esistono, le parole giuste da dire a un figlio unico venerato e viziato: “Mamma e papà si separano. Lei ha un altro”. Tu le hai trovate, Stone, le parole edipiche a descrivere il tuo amore incestuoso per una madre non cresciuta. Sei tu che la sveli, disseminandola nel tuo libro, questa madre irresponsabile, vacua, che ti tocca mantenere quando tuo padre crepa, una madre che mai le passi per la testa di trovarsi un lavoro, una decenza esistenziale che non sia l’ultimo vestito alla moda, e gioielli, e cappelli, e serate tra discoteche e locali anche da 50enne, poi 60enne, e che non le manchino gli amori di una notte, o più di una con baby-mantenuti, escort, sc*pate che paghi tu, Stone, come prima le pagava tuo padre. C’è voluta Elizabeth, la tua seconda moglie, per cacciarla via. A che prezzo, Stone? Tua madre ha detto in faccia a tua moglie che la morte in guerra è utile selezione naturale, come se il padre di Elizabeth non fosse morto in Corea, e tu, Stone, non sentissi puzza di sangue e m*rda vietnamita ogni giorno della tua vita e ogni riga del tuo libro.
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Che problemi hai, Stone, uno si chiama cocaina, poi eroina, in Vietnam è erba così potente altrove introvabile, quell’erba che, appena congedato, da reduce arrabbiato, confuso, drogato, ti manda in galera a San Diego. Il protagonista di Fuga di mezzanotte è al centro di un vero caso giudiziario turco-americano che poi tanto vero nel tuo libro si scopre non è. No, il protagonista di quella storia… sei tu, Stone. Hai sparso la tua anima qui nel tuo libro come nei film che hai scritto, e scritto e diretto: tu sei Woods in Salvador (anche se lo volevi strozzare), sei Sheen in Platoon, sei Pacino in Scarface, sei nei film che dopo gli Oscar giri uno dopo l’altro, uno sull’altro, film che in Cercando la luce (La Nave di Teseo, 2020) non ci sono, saranno nel volume 2. Avrai i tuoi problemi, Stone, ma a me non la fai: Cercando la luce si chiude apposta a aprire la strada a un seguito. Lo anticipi nelle parole di Billy Wilder (“Di nuovo le cervella di Kennedy spiaccicate dappertutto! Tre ore! Sei pazzo? Non farà un soldo!”), nella casa vera di Jacqueline vedova Kennedy vedova Onassis in cui hai girato JFK. Un caso ancora aperto, e ne I Doors. Diamine, Stone, quanti problemi ti fai, con Morrison! È luce del tuo libro, Jim è il tuo Virgilio, sei tu che lo chiami, affinché ti venga in soccorso, nella scrittura, in quello che senti ma non riesci. Che problema c’è, Stone, a fare un film se te lo hanno insegnato, e te lo ha detto Martin Scorsese, tuo professore alla New York University: “Rendilo personale”. Ma rendere personale un film, un libro, una sceneggiatura, è consegnarsi, spogli, indifesi, al giudizio di chiunque e di chi ti conosce. Senza appello, si sta lì, a sanguinare, in sala montaggio. Com’è girare un film, Stone, tu che vai a scatti e istinto? “Prove. Luci. Riprese. Trova la soluzione. Stabilisci i movimenti. Correggi. Aggiungi una battuta qua, togline una là, poi alzati, muoviti, girati, parla adesso, no, meglio di no… ora spargo la polvere rossa che ho fatto venire a sacchi dal Vietnam”. Rinuncia al controllo totale. È il tuo demone.
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Di problemi, Stone, ne stai creando a me. Sottolineo a pagina 179 questo ritratto di Al Pacino: “Inquieto, nervoso, suscettibile, difficile da capire”. Caz*o, Stone, ma sono io! In Cercando la luce, tu racconti film, e quello che c’è dietro un film: soldi, scaz*i, soldi, marketing, soldi, il potere dei produttori, uno è morto sulla tazza del cesso mentre leggeva la tua biografia scritta da James Riordan. Al Pacino era prima scelta per Nato il 4 luglio. Quella volta il ritiro dei produttori fu una vigliaccata e un favore. Al Pacino aveva 38 anni. Come fargli fare un 20enne? Vi furono prove in teatro. Pacino su quella sedia a rotelle abbagliava. Per caso avresti avuto problemi, Stone, a bussare alla sua porta, per dargli del vecchio?
Barbara Costa