05 Agosto 2020

Sergio Zavoli dettava al telefono le interviste – perfino le virgole –, pareva statuario ma sapeva commuovere. Il suo libro più bello attacca così: “Dalle mie parti un conto è crescere, un altro è venir su…”. Un ricordo

La prima volta. Fu un non incontro. La mostra, accaduta a Rimini esattamente dieci anni fa, s’intitolava “Confronto a 10”. In sostanza, un poeta – o presunto – era accoppiato a un artista. Io portai una traduzione dalle Lamentazioni da affiancare alle opere di Massimo Pulini. Sergio Zavoli si accompagnò ai quadri di Alberto Sughi. La mostra partì, Zavoli, giornalista dei giornalisti, già Senatore della Repubblica e Presidente della Commissione di Vigilanza Rai, restò a Roma.

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1982: Sergio Zavoli tra Giulietta Masina e Federico Fellini

Mi accadde, negli anni, di intervistarlo, un paio di volte. Zavoli incuteva timore – il direttore di allora, Franco Fregni, disse “fai tu”. Feci. Avevo un numero romano. E un appuntamento telefonico, a cui, mi consigliarono, era utile non trasgredire di neanche un minuto. Quanto a questo – almeno in questo – sono nordico. Telefonai. La voce di Zavoli zoppicava. D’altronde. Aveva 90 anni, tutti l’avevano udito, commosso, sulla tomba di Tonino Guerra, a Santarcangelo, rievocare il comune sodalizio con Federico Fellini. “Non so se questa nostra benedetta Romagna, curiosa e distratta che si commuove a ciglia asciutte e abbonda negli affetti, così ribalda e tenera, sfrontata e timida si sia mai stupita che un’aria di collina e di riviera, profumata di poderi e di spiagge, un secolo fa avesse salutato l’arrivo di due ingegni destinati, un giorno, a incantare le più diverse genti del pianeta”. A me parve inesorabile e privo di commozione. Sapeva come commuovere, però. Facevo le domande, Zavoli dettava le risposte. Dettava è il verbo esatto. Parlava come se stesse leggendo un testo. Dettava anche le virgole. “Qui ci vuole il punto”, mi diceva, ogni tanto, “qui la virgola”. La professionalità di quell’uomo – insomma, uno che si è inventato la Rai – coincideva con il talento puro. Quando pensò di aver detto tutto, avevo ancora un paio di domande in faretra, mi disse, “la saluto, le auguro un notevole futuro”, e attaccò. Quasi a dire, non mi chiami più. Il futuro non fu notevole, e l’augurio, forse, si rivela anatema, ma questo poco importa, ora. Sembrava stanco di tutto – anche di essere stanco.

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Stando a Rimini, all’altra riva del noto, fu ovvio, per me, occuparmi di Zavoli. Per desiderio di sfregiare i sacrari, lo pungevo, ogni tanto. Scriveva poesie pubblicate da Mondadori, ad esempio. Non mi piacevano. Qualche anno fa mi misi – pur superficialmente – a spulciare nella sua carriera in Senato – è stato senatore per quattro legislature, dal 2001 al 2018. Mi restò impressa la frase di Mario Luzi – Senatore pure lui, per merito – che lo ricordava, “ebbe a dirmi, parlando della politica, che non c’è mai tanto bisogno di politica come quando è la politica ad autorizzarci a voltarle in qualche modo le spalle”.

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Come molti, Sergio Zavoli – ravennate di nascita, riminese di crescita – lasciò Rimini, antica colonia romana, per la grande madre, Roma. Ha fatto quel che sappiamo, con quel viso volitivo, quadrato, serio e aperto, ambizioso. Ha firmato una prefazione potente per La mia Rimini di Fellini, edita da Guaraldi. “Da quel tre novembre del 1993, quando ci congedammo in piazza Cavour – con lo spettacolo dei fazzoletti che parevano tutte le farfalle cavolaie venute a salutarlo dagli orti dei quattro borghi – Rimini ha letto e ascoltato ogni genere di commento, e anche di giudizio, su quel figliolone ravveduto, cioè arresosi all’idea che la Romagna fosse davvero l’origine sentimentale, fantastica, anche civile, della sua esistenza; e Rimini il luogo di una definitiva conciliazione tra vita e morte. Tutto accadde quel giorno, nella suite 315 del Grand Hotel, dove le finestre rimasero a lungo aperte, con il gonfiore delle tende libere di respirare, così pareva, il suo stesso respiro, e la terrazza, sotto, su cui i ragazzi di Amarcord avevano ballato tenendo tra le braccia la nebbia. La città, liberatasi di una vecchia e ostentata diffidenza, restò attonita all’annuncio del malanno e gli fu vicina con un silenzio tra riguardoso e materno, ora che Federico era a Rimini per viverci un tempo mai, prima, così lungo, forse unendo l’idea della sua salute ai segni di una accogliente fraternità. Rimini, diventata una grande casa, amabile in quell’affetto riscoperto e forse messo a frutto per sempre”, scriveva Zavoli, che ha preferito morire nel luogo del successo e non in quello dell’infanzia. E poi, come chi scrive in punta di diamante, potendo scrivere tutto con la potenza di chi conosce gli uomini e i loro trasalimenti, “Pochi, nel cinema di ogni tempo, hanno affrontato con tanta ammonitrice innocenza, senza soppesare opportunità, equilibri, convenienze, i grandi temi incombenti sull’uomo. Federico Fellini l’ha fatto, libero da blandizie e compromessi, non ammiccando ai potenti, ma rivolgendosi soltanto a noi. Senza invettive, grida, proclami, sentenze, semmai inclinando, verso la fine, a un severo silenzio scavato dentro il rumore della nostra epoca”.

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Ho conosciuto Zavoli per lo più attraverso Mario Guaraldi, il grande editore. A volte non ci si conosce che per sotterfugi, sottolineature, i sussurri di un altro – ed è sufficiente. Guaraldi, nel 2005, aveva ristampato il libro che Zavoli amava più di tutti, Romanza. Edito nel 1987 da Mondadori, se n’erano dimenticati in fretta – d’altronde, un grande giornalista non si occupa di facezie e di fiction, ma di grandi inchieste. Mario Pomilio – uno scrittore che non smetto di amare – ne parlava, in prefazione, come di “un libro di fede nell’uomo”, che “possiede in egual misura la splendida concretezza dell’effettivamente vissuto e l’alone delle cose diventate favola e miraggio”. Qui, in omaggio, pubblico le prime pagine. Un uomo che ha vissuto così profondamente la Storia, rischia di essere refrattario al sentire, è puro pensare, quasi una statua – Zavoli, statuario, lacrimava dentro, forse, in una specie di isola privata, nella Villa Adriana del cuore, tra la gola e l’ombelico, una zattera. (d.b.)

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Dalle mie parti un conto è crescere, un altro è venir su. Crescere dà un’idea di creatura rara, la cui esistenza va sorvegliata con cura e alla cui perfezione si riservano regole mondane, princìpi morali e norme estetiche in funzione della preziosità di ciò che, appunto, deve crescere; mentre venir su è l’opposto, è la natura che affida alle lune, come per il vino, la sorte buona o cattiva di chi s’inerpica alla meglio sui fianchi dell’esistenza. Pensavo a questa distinzione, un po’ animosa e un po’ ingenua, ai tempi della scuola, quando nei modi d’essere o di apparire dei compagni intravedevo le differenti vite dei padri e quindi le sorti già separate dei figli, immaginando così un destino di diversità che nessuna cometa avrebbe potuto deviare dal suo corso. Non per nulla, mi dicevo, si cresce a corte, in villa, in collegio, alla scuola di un maestro o all’ombra di un potente; e si viene su come Dio vuole, bene o male a seconda della salute, delle circostanze e della fatalità.

Vedevo crescere poca gente, tantissima ne vedevo venir su: difesa dalle mura, nascosta nei parchi e guardata dai precettori, nel primo caso; ovunque, e fra un’indistinta quantità di persone, nell’altro. Questa visione del mondo, così drasticamente spartita, mi si chiarì quando iniziammo a praticare uno sport, ciascuno il suo preferito. Vidi allora che per un verso si diventava creature pervase da una sobria bellezza, aggraziate, ragguardevoli e risolute, per l’altro aureolate di nulla, dai toni andanti, secondarie e dubbiose. Le prime giocavano a tennis, sciavano, tiravano di scherma, mentre le seconde praticavano il football, boxavano, correvano in bicicletta. Le une avevano della vita un’idea disinvolta e briosa, le altre ispida e insicura.

Sono immerso a tal punto nella memoria di quegli anni, e così segnato da come furono vissuti, che basta un soprassalto per risvegliare una giovinezza rimasta chissà dove; quando viene maggio, ad esempio, qualcosa mi riconduce sulla Via Emilia, dopo il ponte di Tiberio, in attesa del Giro d’Italia. Avevo, per quel giorno, un complice straordinario. Era Vidmer, il figlio di Elconide Moretti, l’infermiera non diplomata che faceva iniezioni magistrali lungo tutta la strada, a qualunque ora, senza strofinamenti e con la mano sinistra. Quanto al padre, un analfabeta, aveva mandato a memoria ciò che stava scritto su ogni marmo o pietra della città, dalle iscrizioni romane all’elenco dei caduti in guerra, dagli editti comunali alle epigrafi sui sarcofaghi del Tempio, e leggendo e illustrando riga per riga tutta quella storia si era guadagnato il necessario per morire, un po’ ogni sera, nelle cantine povere della città, che sanno di vini giovani e di sigari spenti, le stesse dove si era distinto suo nonno e, prima ancora, il bisavolo. Non era mai del tutto sobrio, né proprio alticcio. Di natura ilare, amava provocare sensazioni, nella sua intenzione, gioiose; così, per scuoterlo, dava di gomito a chiunque gli sembrasse infelice o semplicemente rabbuiato. Quando voleva indurre l’Elconide almeno a un sorriso, le ricordava il più bel pezzo del suo repertorio: il concepimento di Vidmer su un barchino, a due miglia da terra, grazie a un equilibrismo del quale la moglie aveva parlato per anni con un’ammirazione un po’ pudica e un po’ spericolata; sicché il ragazzo, ascoltando, si era fatto della vita un’idea, quantomeno, di instabilità. Ma da quel richiamo era rianimata sempre meno; le vanterie del marito la facevano anzi scivolare in uno scoramento ognora più fondo.

Al contrario di me, che ogni mattina me ne liberavo in fretta risalendo da un unico inabissamento, Vidmer rimaneva a lungo influenzato dal sonno, al termine del quale indugiava in un mondo di splendide infondatezze: sognando di saper dare una risposta a qualunque cosa, anche alle più rare e astruse, si svegliava con nozioni fantastiche, ma sicure, di tutto. L’effetto di quella naturale e serena millanteria cominciava a declinare nel corso della mattinata ed era del tutto svanito nel pomeriggio. Fino a quel momento, dunque, Vidmer intersecava, connetteva e risistemava il mondo con la speditezza di chi ha finalmente trovato il bandolo della semplicità.

Sergio Zavoli

*Il testo è tratto da: Sergio Zavoli, “Romanza”, Guaraldi, 2005; in copertina: ritratto fotografico di Sergio Zavoli photo Dino Ignani

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