03 Aprile 2020

Nuovo Vocabolario del Virus: “Picco”. Più che “raggiungere il picco” stiamo colando a picco… Meglio compiere l’ascesa con Petrarca, René Daumal e gli eremiti dell’Himalaya

“Picco”: Al picco ci confina il contrario, la picchiata, il pericolo di andare a picco. La mistica insegna che ogni ascesi è un precipizio, che si varca un picco solo se si ha il gusto di compiere una catabasi dentro di sé. Se non ci sono oscurità né cunicoli – tutto è luce perché è vuoto, spoglio – ogni cima è plausibile, prossima. Ma i giorni, la marmellata televisiva, non sono un trattato di mistica: qualcuno dice che il picco è stato raggiunto, ma il Paese cola a picco, picconato da indecisione, afasia, segni infausti. Chi ha il gusto dell’ascesa – cioè della fatica – sa che in cima non si gioisce, se non in uno spazio sacro tra mente, mani, caviglie. A un picco segue l’altro, lo sguardo è la sola vittoria; un picco non si prende, non si preda, è la patria, patrimonio di solitudine.

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Questo picco, in realtà, è una palude. Non ci è chiesta alcuna verticalità – una verticale che può sondare abissi – ma la stasi, la morfina degli intenti, l’orizzonte del letto. Un politico regionale “commissario per l’emergenza Coronavirus”, ha detto, dando carati antropologici al virus, “vi è chiesto il sacrificio di stare sul divano qualche giorno, mica di andare in guerra”. Come a dire: che fatica è!, senza capire che essere sfaticati è la vergogna. Non gli viene in mente che l’uomo non desidera la siepe del divano, ne ha disprezzo – ambisce alla lotta, cioè all’ascesa. Il migliore dei cittadini possibili obbedisce perché ha la pancia piena e lo stipendio assicurato dallo Stato. L’uomo, invece, risuona nel rischio, tra potenza e insussistenza.

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Il picco riguarda la folgorazione – non si giunge in cima per superare gli altri, ma per essere nel punto più basso dello sguardo di Dio, ai suoi piedi, a un Everest dalla palpebra. Sul Tabor Gesù si trasfigura; sul Sinai Dio si rivela a Mosè. Quando si scende dal picco, si è altro – il volto, preso a picconate dall’altezza, ha foggia anomala. Si è irriconoscibili per inflessibilità e nitidezza, scesi dal picco.

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Per capire chi sei devi lasciarti andare all’altezza. Si sale al picco con poco carico – tutto appare superfluo tranne il corpo, la trama dei muscoli, una minerale fermezza. Due picchi mi sono cari. Il primo è il Monte Ventoso, il Ventoux, a Vaucluse, scalato da Petrarca. Il picco scava nelle opalescenti ipocrisie del poeta: “Troppi sono ancora gli interessi che mi producono incertezza ed impaccio. Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza”. Come un chiodo che scastra, brano per brano, l’abbecedario di un affresco, il ragionare di Petrarca si sgrava, è allo stremo, si rassegna, muore. Sul picco non desidera più i libri – sfogliava Agostino, in una solitudine che sbriciola le clessidre – né il disturbo degli umani. “Niente è da ammirare tranne l’anima”, dice, ancora ancorato all’anima, che svanirà come la leccornia della teologia scorsa.

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L’altro è il Monte Analogo, asceso da René Daumal nei reami letterari. “Posso dirle dunque che ho paura della morte. Non di quello che ci si immagina della morte, perché questa paura è essa stessa immaginaria. Non della mia morte, la cui data sarà annotata nei registri dello stato civile. Ma di quella morte che subisco ogni istante, morte di quella voce che, dal fondo della mia infanzia, anche a me chiede: ‘Cosa sono?’ e che tutto in noi, intorno a noi, sembra essere disposto a soffocare, ancora e per sempre. Quando questa voce non parla – e non parla spesso! – sono una carcassa vuota, un cadavere agitato. Ho paura che un giorno essa taccia per sempre”. L’ascesa percuote il respiro fino al ritmo asimmetrico in cui il corpo può farsi albero, poiana, fiume. E fiancheggiare i lampi.

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Perché quando si parla di picco al posto di far dire agli scienziati – che si contraddicono per natura sperimentale – non fanno parlare il poeta? Oltre alle cifre sciorinate ogni giorno di contagiati, morti, guariti, ci vorrebbe il poeta a leggere versi per consolidare l’ascesa dei vivi verso il picco. Io leggo Han Shan, poeta cinese di epoca Tang, vissuto, forse, nel VII secolo: ha scritto un canzoniere sul picco della Montagna fredda, stampato nel 2013 dall’editore Tararà (per la cura di Anna Bujatti, la prefazione è di Gian Carlo Calza).

Contento della via semplice che ho scelto,
tra nebbie e rampicanti e grotte nella roccia,
senso di libertà nella natura selvaggia,
le nuvole bianche in ozio per compagne,
c’è la strada ma non raggiunge il mondo,
solo chi ha assopito i pensieri può arrivare qui,
siedo a notte da solo sul letto di pietra,
la luna piena sulla Montagna Fredda.

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Scalare un picco picchia la possibilità di perdersi; perché la discesa non sia una caduta occorre una guida. Ma chi conosce, ancora, i nomi degli alberi e la leggenda che li ricalca, chi sa il valore delle api, come dadi gialli in mezzo alla via?

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Il picco va raggiunto in picchiata, senza piccone, perché è un’entità inafferrabile. Nonostante nelle nostre case l’aria sia rarefatta esse non sono un ghiacciaio e non c’è da sospirare di sollievo se qualcuno dice “abbiamo raggiunto il picco”! Costretti, semplicemente, non abbiamo fiato. Assenti, stiamo ad assentire. Piuttosto, ascendiamo sul tetto di casa, su quello del palazzo in cui siamo incapsulati – da lassù, usando le tegole come leggio, è legale leggere qualcosa al cielo.

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Più interessati ai picchi della mente umana, John Crook e James Low, nel 1997, hanno pubblicato il resoconto del loro “pellegrinaggio tra gli eremiti dell’Himalaya buddhista”. Il libro è stato tradotto da Ubaldini come Gli yogin del Ladakh (2013). Discepoli moderni di Milarepa, seguaci della scuola Kagyupa del buddhismo tibetano, questi eremiti vivono incassati nelle grotte dell’Himalaya, sfidando le ristrettezze e il rigore con la meditazione. Relegano l’impossibile in una disciplina. La loro dedizione è riassunta in questo progetto lirico:

Non aver paura di meditare da solo in una grotta.
Non aver paura di meditare da solo in una grotta, con pochissimo cibo, né di ammalarti.
Non aver paura di meditare da solo in una grotta né di morire lì.
Non aver paura di meditare da solo in una grotta, né di morire lì senza che nessuno conosca neppure il tuo nome.

In effetti, l’estrema nudità, il parapetto del nome, deve essere spesa, dissipata, per giungere al picco della meditazione. Si tocca il picco scuoiati del nomi, pronti a destinarsi al prossimo. Quando lo studioso occidentale vuole capire come è possibile l’impossibile e allineare una accademia sul nascosto, l’eremita lo zittisce: “Avete avuto il grande beneficio di un addestramento nella meditazione, perché non andate a praticarla? In tal caso non avreste bisogno di fare una domanda così stupida”. Praticare, appunto.

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Fossimo sul picco di un ghiacciaio, noi chi siamo? Le scintille bianche, l’effetto morgana, il desiderio dell’acqua?

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Il picco non va raggiunto: è la pratica. Ieri mi sono accertato che il mare esiste ancora – mi sembrava un picco, la cima blu di una montagna. Ho scoperto di avere ancora un’ombra. (d.b.)

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