“Parlavamo la lingua del Cielo. Di cose che quaggiù non possono dimorare”. Storie dal Tempio
Letterature
Veronica Tomassini
La più grande stronzata ripetuta a oltranza è che vengono pubblicati troppi libri. Sì, forse troppi noir, thriller e gialli da autogrill. Ma di testi che affondino le radici in uno sguardo onesto e senza infingimenti sul presente si sente decisamente la mancanza. Il realismo latita. L’unico genere che sembri essersi preso l’onere di raccontare il nostro tempo è la distopia e lo fa, spesso, servendosi della trasfigurazione entro uno scenario futuro che esaspera per rendere più chiara e visibile l’attualità. In Italia – come al solito – non è che la tendenza sia diffusissima rispetto all’Europa e al resto del mondo. Uno dei pochi casi è quello rappresentato da Luigi Balocchi con Exit in fiamme (Emersioni, 2019). Il romanzo è la storia di una tragedia che va sempre più prendendo piede nel disinteresse generale, osservata attraverso la lente letteraria di un giornalista oramai decisamente rotto alla vita e ai meccanismi del Potere – di cui, è appena il caso di precisarlo, anch’egli è in una vaga misura complice. L’ambientazione è Milano, vista come sineddoche di una decadenza generale dello Stivale e del resto del pianeta. E, mentre la città si fa sempre più invivibile, fisicamente e moralmente desertificata, il protagonista si addentra nei meccanismi malati che la dominano silentemente come un cancro prossimo a distruggerla.
L’autore, con sfacciato coraggio e allusioni spesso molto palesi a quella realtà meneghina che lo circonda ogni giorno, ha voluto raccontare questo male che oramai è sempre più vicino a ognuno di noi e in cui è facile riconoscere molte delle facce che ogni giorno occupano il piccolo schermo, internet, e i vari avamposti della propaganda strisciante. Exit in fiamme è un romanzo sul Potere e su un mondo che presto arriverà al vertice del suo degrado – una denuncia che non dovrebbe passare inosservata.
Il tuo libro, Exit in fiamme, è una distopia, genere che negli ultimi anni ha conosciuto una nuova vitalità, dopo che i grandi classici del passato avevano per così dire spianato la strada. In tempi a noi più vicini abbiamo avuto Saramago con Cecità, Cormac McCarthy con La strada. Qui in Italia, recentissimamente, c’è stato Franz Krauspenhaar con Brasilia. È d’obbligo, dunque, domandarsi perché la distopia? Per raccontare un futuro imminente e minaccioso, per spiegare il presente? Perché?
Sinceramente non credo nei generi letterari. Credo nella letteratura che narra storie di uomini e donne. Così ho sempre fatto, dai tempi del bandito Sante Pollastro (in Il diavolo custode, Meridiano Zero 2007), fino all’omicidio di una giovane studentessa pavese (in Il morso del lupo, GoWear 2015). Per me, filosofeggiare è da pirla. La letteratura, se fatta bene, è una strada che tutto ha in sé e che a tutto conduce. In ciò, ho sempre raccontato quel che è stato, il passato, per spiegare, innanzitutto a me stesso, quel poco di presente che ci tocca. Con Exit in Fiamme, mi è saltato per la testa il futuro che cova i suoi germi qui, ora, nelle nostre concrete vite. Il futuro imminente, minaccioso, pulsa ovunque e ovunque lo intravedo; innerva le vite, le nostre. Io sono sempre stato sulla strada, i suoi dolori, le sue angosce. E non c’è nulla di più vero che abbracciarli e gettarli in là, più avanti, dove i giorni si fanno nebbia e fuoco e tutto si rivela perduto. È quanto sta accadendo in questa parte di Occidente, dove la banale retorica dell’ottimismo, di ciò che potremmo definire le magnifiche sorti progressive, si scontra con le solitudini, le disperazioni, l’annullamento, le rivolte. Exit in Fiamme è quindi questo: la storia di un europeo qualunque, trafitto (a modo mio) dal Potere.
La storia che racconti finisce per coinvolgere il mondo, ma tu circoscrivi la narrazione a Milano, quasi fosse il centro di irradiazione del male. Palesemente, la città della Madonnina è una sineddoche, la parte che rappresenta il tutto. Già, ma di cosa?
Milano è il mio bus negher (buco nero). Sono un lombardo che spesso parla in dialetto e bene conosce questa parte di terra. Milano è la faccia perbene, votata a futuribili meraviglie, la punta di diamante dell’efficienza finanziario-progressista del mondo globale. Io vedo la faccia, quell’altra, la nera, nascosta, oscura che è fatta di solitudine, di cocaina a vagonate, di un elevatissimo tasso di suicidi, di sradicamento e silenziosa, misera, disperazione. Cosa ho fatto, dunque? Non ho fatto altro che raccogliere tutti i disastri del mondo e concentrarli qui, nella strabiliante e falsa Milano. Perché l’ho fatto? Perché Milano è essa stessa la vetrina del mondo. Io, quella vetrina, l’ho spaccata. E ne sono felice.
Leggendo il libro pensavo che non è un caso se il tuo protagonista è un giornalista («Tutti scriviamo tonnellate di cazzate […] Sono trent’anni che insieme ci occupiamo delle pagine del Tempo Libero. Il nostro forte son le nuove mode. Siamo dei draghi con la birra che si trinca, l’evento, il trend, il cool, le mattane di tendenza. Siamo i re dei trafiletti della metropoli che diverte e si rinnova. Trent’anni…»). I giornali sono il Potere, o più propriamente il megafono di questo. Il tuo è un testo contro il Potere, o sbaglio?
Il Potere, qualsiasi Potere, ha sempre in sé qualcosa di criminogeno. I giornali sono le sue casematte, mi sembra dicesse qualcuno. Per anni mi sono occupato di cronaca locale, la nera, quella vera, per giornali di provincia. È da lì che ho capito la differenza tra quel che accade nel reale e chi, al contrario, ha in mente un certo tipo di società e usa l’informazione a tal fine. Tranne rarissimi casi, il giornalismo attuale è davvero il cane da guardia del Potere. Tonnellate di parole inutili e vane son lì a dimostrarlo. Detto questo, io non denuncio nulla e niente. Io vedo. Ciò che vedo lo sciacquo nel mio immaginario grottesco e così lo propongo. Facciamoci una domanda: perché le principali testate giornalistiche nazionali danno sempre minor spazio alla cronaca nera? Perché la verità, il reale che sberleffa l’artificio di una società che si vuole destinata a un radioso futuro, dà fondamentalmente fastidio.
Uno dei motivi per cui ho apprezzato particolarmente Exit in fiamme, oltre allo stile forte e mai barocco, l’atmosfera cupa magnificamente descritta, è il fatto che, pur nella trasfigurazione distopica, il tuo libro parla della REALTÀ, la grande assente, a mio avviso, della letteratura attuale. Non pare anche a te che in essa, come nella quotidianità in generale, si parli soprattutto di cazzate, invece che del mondo intorno a noi?
Io vengo dalla scuola dialettale del Maggi, del Porta, del Tessa, dal realismo lombardo che affonda le sue radici estetiche nei contadini dipinti dal Moretto, dal Savoldo. Vengo dal Gadda, dal Testori, dal Brera, da Scerbanenco, Svampa e compagnia bella. Exit in Fiamme parla della realtà che stiamo già da ora vivendo e lo fa in tono grottesco, a volte disperatamente comico. Perché il realismo grottesco, quel suo deformare le carni insieme ai pensieri, fa parte di quello stesso spirito gotico che ha scolpito mill’anni indietro la facciata di San Michele in Pavia. Andate a vederla e capirete. Di tutto ciò mi sento un degno testimone. La mia cura è quella di non far mai dei compitini. Di non correggere le storture, bensì accentuarle. Altri che scrivono si sono forse dati il compito di essere carini, puliti, educati nella forma e nella vacua sostanza. Il che significa dir niente e piacere un po’ a tutti. Mì som no inscì. Io non sono così.
Matteo Fais