03 Maggio 2018

Nessuno parla seriamente di lavoro. Il problema non è pattuire orari di ferie, ma dare la possibilità, per contratto, di fare il bagno al mare e di guardare la luna. Lo dice George Orwell

Il primo di maggio, in un tronfio trionfo di banalità, ci rammentiamo che l’Italia è “una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Bizzarra pirotecnia. Le due paroline magiche del primo articolo della Costituzione italiana – ‘democrazia’ e ‘lavoro’ – sono quelle reiteratamente snobbate dai politici. Oggi voglio parlare di lavoro. No. Non ne ho le competenze. Vivo da sovrano incompetente. Intanto. Il lavoro non è quella cosa che fai perché ti ricambino con il denaro. Il tempo non è denaro, mai. Il tempo è impagabile. Non esiste stipendio che possa prezzare il tempo, cioè la vita che va, la morte. Il lavoro è quella cosa che si fa per provare il proprio talento. Proprio così. L’uomo, animale follemente sviluppato, non lavora più per mangiare. Per mangiare basta andare davanti ai supermercati pochi minuti prima che chiudano. Il cibo te lo tirano dietro. Il lavoro si fa perché l’uomo vuole passare il tempo senza che il tempo gli passi sopra, asfaltandolo. Si lavora perché il frutto del proprio lavoro è la degna testimonianza che non siamo vissuti invano. Si lavora perché l’uomo, inappagato, insaziabile, vuole verificare i propri limiti. Vede un pezzo di legno e pensa: sarò in grado di farne una sedia? Si lavora, anche – perché no – perché si vuole obbedire a una richiesta. Uno mi dice: prova a fare una automobile, ti pago tot. Ci provo. Vediamo. Fare un lavoro per procacciarsi dei soldi e poi spenderli in una qualche fatua vanità – casa più grande, auto più potente, vacanza con contorno di escort – è da idioti sul ciglio del suicidio. Oggi, al contrario. Pare di essere in un campo di concentramento dove lampeggia la frase sbeffeggio Arbeit macht frei, solo che il lavoro non rende liberi, ci riduce in schiavitù. Citazione colta. Il 12 aprile del 1946 George Orwell, quello di 1984, firma sul Tribune uno dei suoi elzeviri più noti. S’intitola Riflessioni sul rospo e parla del sorgere della primavera. Usando, con voluttuosa volontà, una creatura antiretorica (il rospo, che “non è mai stato molto celebrato dai poeti”), Orwell compie un attacco frontale al sistema economico occidentale. Cioè, al sistema esistenziale d’Occidente. Che si basa su una regola semplice, semplice: mantenere “la gente costantemente insoddisfatta”, in modo da “moltiplicare i bisogni piuttosto che incrementare il godimento di ciò che già possediamo”. Eppure, “persino nella più squallida delle strade l’arrivo della primavera si manifesta con qualche segnale, fosse solo quell’azzurro più intenso che appare fra i comignoli o il verde scuro di sambuco che spunta in un’area bombardata… quanto alla primavera, neppure le stradine anguste e tetre intorno alla Banca d’Inghilterra riescono a tenerla fuori del tutto”. La primavera, avvertita come un fastidio da chi non ha ‘tempo da perdere’, invade il tempio del capitalismo avanzato: le piccole erbe matte che crescono, se non sono estirpate, sono in grado di sbriciolare una banca. Perfino in aree potentemente industrializzate, la natura sussulta, vince, “ho visto un gheppio volare sopra gli impianti del gas di Deptford e ho ascoltato l’impeccabile assolo di un merlo a Euston Road”. Il ragionamento di Orwell, al cospetto della natura che si dilata e divora, è doppio. Antropologico: “Io credo che se conserveremo un amore infantile per come gli alberi, i pesci, le farfalle e i rospi, renderemo un po’ più probabile l’ipotesi di un futuro pacifico e decoroso, mentre predicando che non bisogna ammirare nulla tranne l’acciaio e il cemento armato, rafforzeremo la possibilità che agli esseri umani non restino altro che l’odio e l’adorazione del Capo per dare sfogo alle loro energie eccedenti”. Politico: “Quante volte, fermandomi a osservare i rospi accoppiarsi o due lepri fare la boxe in mezzo al grano verde, ho pensato a tutte le persone importanti che vorrebbero impedirmi di farlo, se solo potessero. Ma fortunatamente non possono. Le bombe atomiche si ammassano nelle fabbriche, la polizia si aggira per le città in cerca di prede, le menzogne escono a fiotti dagli altoparlanti, ma la Terra continua a girare intorno al sole e, per quanto possano disapprovare il fatto, dittatori e burocrati non riusciranno certo a impedirglielo”. Ammirare la primavera mentre il resto della città ‘produce’ è, per Orwell, un atto rivoluzionario. Ha ragione. Dovremmo farlo tutto. Fermarci e ammirare per qualche minuto i boccioli dei fiori che esplodono furibondi come fiamme. Il punto, nel lavoro, non è garantire ferie e orari di lavoro pattuiti. Più importante, è stabilire, per contratto, visto che si contratta sempre tutto, anche l’anima, la possibilità di assentarsi per guardare la luna che ora è già in cielo alle cinque di pomeriggio, o di fare il bagno al mare la mattina alle nove o una passeggiata al parco nel primo pomeriggio. Il lavoro è la vita. Noi non siamo operai per un tot di ore alla settimana e svaccati vacanzieri per il resto. Siamo uomini. Sempre. (d.b.)

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