Non c’è che il dolore – siamo la prova che ci è concessa.
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Siamo interamente la prova: se soccombiamo, abbiamo tuttavia provato. Siamo benedetti dalla prova. Provati fino alla depravazione, fino alla privazione, fino a ridurci allo stato di preda. Tutto qui?, dovremmo dire. Donami una prova più ampia – perché la prova è la misura della mia grandezza.
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Senza la prova – che viene da fuori, a santificare la nostra crescita – vivremmo nella teca delle nostre ossessioni. Chi è orfano della prova, si uccide. La prova, in effetti, è il dono.
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L’uomo non è fatto per la quiete, ma per la sfida. Ogni risposta – l’eremo, il lavoro, l’esaltazione, il raccoglimento – è una risposta a una sfida, una risposta al dolore.
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Passione significa soffrire. Si può amare solo dalla cruna del dolore, l’appassionato è lì, sul crinale della sofferenza. Passione e compassione: gesti definiti dal dolore.
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Il corpo, continuamente messo alla prova del tempo, deperisce, esiste perché senza esitazione soffre. E un altro lo bacia. Dubitate chi vi propone una vita depurata dal dolore, in esilio dal soffrire, sotto vuoto. Nel vuoto, piuttosto, precipitate – qualcuno saprò torcere l’urlo in preghiera.
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Nadia Toffa come Veronica Giuliani, la mistica dell’estremismo, tentata dall’abiezione come forma d’elezione: “Gli avilimenti, gli disprezzi, gli obrobrii, le calumnie, gli disonori, le percosse, il patire e la croce: quesi io conoscevo che son tutti ornamento di questo mio nulla; ed anco li riconoscevo aiuti speciali per fare preda dei tesori infeniti”. La prova è il punto di incendio con il misterioso, con Dio. La prova non si accoglie con sorriso ebete: si fugge, di essa non si nega la violenza. Tutti vogliamo stare bene – mors tua vita mea – e ci attacchiamo a morsi grotteschi a una vita che, è chiaro, fa soffrire. Amiamo la vita per comodità: perché alla luce del dolore c’è anche qualche barlume di godimento. Ma è a partire dalla verità dei fatti – il dolore – che possiamo installarci nella prova senza un lamento.
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Il sorriso, instancabile, come una stimmate, perché, è detto, non date mostra del soffrire, se soffrite.
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Si ama la vita per riconoscenza al dolore, altrimenti saremmo gelidi come angeli, algidi e cadaverici come vampiri.
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“Toccasse a te, tiè!”, dice il gonzo che vuole vivere, da morto-in-vita, fino a 500 anni. In effetti, a tutti è toccata la fetta di dolore: di quella ci ricordiamo, ne siamo intaccati. Non di altro. Di come qualcuno ha saputo amare il nostro dolore, di come se ne è intonacato, che è poi il nostro segreto, il remoto irraggiungibile, l’ultimo bagliore di innocenza.
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L’uomo nasce nel dolore, nella prova del parto – Dio esiste per provarlo. “L’uomo/ Cavato da una donna/ Corto di giorni/ Stipato di dolori// È un fiore che spunta e cade/ Un’ombra in fuga che non si posa/ Una cancrena nello sfacelo/ Una maschera rosa dalle tignuole”, ulula Giobbe nelle parole di Guido Ceronetti. Provato, chiede di scampare Dio, “Perché non mi nascondi in una tomba/ Non mi segreghi finché la tua furia cada”. Eppure è lui, “uomo di perfetta purità”, che Dio lascia all’ardore di Satana – è a lui, martoriato dalla prova, spazientito, nel guaito, che si rivela Dio.
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“La malattia, l’avere bisogno di aiuto, mi hanno costretto a riprendere contatto con la mia parte più tenera e indifesa, quella più umana. Era come se mi fossi dimenticata che la fragilità non è una debolezza, ma è la condizione dell’essere umano”, ha scritto Nadia Toffa. Non una mistica, non una teologa, non una che gioca al cruciverba della teodicea. Nostro è scoprire l’indifeso, ambirlo tremanti, certi che “il nostro Dio è fuoco che divora”, come dice san Paolo. Anche l’insensato, tuttavia, legifera al dolore una eleganza da guerriero.
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Nel dolore l’abitato – e nessun’altra ambizione. Lo sconvolgente di Isaia 53, che ricalco ancora con la lingua di Ceronetti, che schianta chi è ignifugo alla vita:
Dagli uomini disprezzato
Lasciato solo
Uomo di dolori
Esperto di ogni sventura
Uomo che non si guarda in faccia
Lo spregiavamo
Lo ignoravamo
Eppure i nostri mali portava
Dei nostri dolori si incaricava
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A noi è dato sopportare il nostro dolore, non soppiantarlo – ma ogni dolore è espiare quello degli altri, fino all’ultimo respiro. Elevati al dono, perdoniamo chi non lo comprende.
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“E però il dolore, la sofferenza ti ammazza in maniera ancora più crudele che non il suicidio”, scrive David Maria Turoldo, perché non occorre cancellare l’illecito, lo scandalo, mediare nel sorriso il grido. Non c’è medico, ma squarcio, scalfittura senza verbo.
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Conoscere nel dolore – Eschilo – anche se il dolore rende sragionati. Il dolore sregola nell’irragionevole – nell’agnizione che il corpo è ligeo, si consuma. Qualcosa deve morire per sigillare con un amore spietato il muso della vita.
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Dei miei nonni, uno, arso nel dolore, sussurrava grazie andando verso la morte; l’altra, si strappava le flebo, hanno dovuto ficcargli un tubo in gola per nutrirla e i guanti alle mani per non staccare tutto. Ciascuno, nella propria rampicata.
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D’altronde, anche la poesia è posa, è prova. Di Orfeo che scende agli inferi è detto che, fallendo la prova di restaurare la sposa alla vita, le Baccanti lo vollero. Fu scannato. Morì l’uomo, non il canto. (d.b.)