21 Giugno 2019

Ho visto per voi l’ultimo film su Muhammad Ali, il pugile che trasformò il ring nel foyer della Scala, che aveva gambe da Nureyev in un corpo da Teseo e portava la Terra Promessa nei guantoni. Ci ha fatto mangiare la sua carne fino all’ultimo tremito

Chi fa la storia agisce in modo non lineare, arriva dalle ombre, abita l’inatteso, senza adornarlo. Ciò che sembrava inesatto fino a un attimo prima, immediatamente è la risposta lampante. Chi ha confidenza con la Bibbia sa che Dio gioca a eleggere re gli improbabili, gli incapaci, gli inadeguati – altrimenti, dove sarebbe la sua divinità? Mosè, il Suo portavoce, era balbuziente.

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Muhammad Ali è un errore. Al posto di menare, balla; al posto di concentrarsi, blatera; al posto di avanzare, arretra; al posto di stare al suo posto, fa il Napoleone dei reietti. A sconcertare, per lo più – quando Ali era Cassius Clay, aveva un sorriso hollywoodiano e diceva “guardate che bel visino, nessuno riesce a picchiare questo bel visino” – sono le gambe, magre, agilissime, un Nureyev incapsulato sul corpo di Teseo, sterminatore di mostri – i pugili, in effetti, nei ‘massimi’, sono massimamente mostruosi, mentre lui è aitante, piacione, fuori luogo. Millenni di evoluzione celebrate in quelle gambe da ballerino, una danza sul sangue, lo sciamano del ring, il torero, che aspetta il corpo sacrificale per falciarlo, danzando, tra baccante e stregone del Sahel. Continenti e riscatto e esodo in quelle gambe: Ali non è un pugile, ma l’uomo che porta la Terra Promessa nei guantoni.

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What’s My Name: Muhammad Ali, il documentario di Antoine Fuqua – presentato al Biografilm Festival di Bologna e da questa sera su Sky Arte – ha un netto pregio rispetto a pellicole simili – o al film oleografico, Ali, del pur bravissimo Michael Mann. Fa parlare i fatti. Accumula una piramide di fonti video – spesso inedite – senza commento. Il commento agiografico, semmai, sta nel montaggio. Ma Fuqua, che non è regista per intellettuali, bada al sodo e non al senso riposto. Così, Ali è lo screanzato smaliziato che divora la comunicazione, è un cannibale che inventa claim, spot, jingle, che atterra l’avversario con putiferio retorico. Ha usato il ‘personaggio’ per mettere al tappeto il pugile – ogni battaglia sul ring era, reiteratamente, “l’incontro del secolo”, con signori riccamente agghindati, come se il ring fosse il foyer della Scala.

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Per questo gli sfottò, la provocazione, la prevaricazione di una ironia cinica: Ali ha bisogno di sentirsi solo. Solo contro tutti. Ha bisogno che tutti gli siano contro. Per convincere tutti che lui è il solo, il più grande.

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Quando lo sportivo espande il ring al mondo e decide di fare la Storia è chiaro che tutti – capi religiosi, politici, avversari – se ne approfittano. Ali lascia che si approfittino di lui, venite a mangiarmi, dice, ce n’è per tutti – si offre, senza sofferenza.

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Che paradosso: orientato all’Africa, icona della liberazione – fisica e simbolica – del popolo nero dalle catene dei bianchi, Ali è una creatura del ‘sogno americano’. Una storia come la sua è tipicamente americana, non potrebbe venire da altrove.

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Bisogna liberarsi di ogni cosa per ottenere l’altro mondo della fama. Ali si libera del nome, si libera dei cliché in cui è imprigionata la boxe, si libera della patria – gli Usa – per un’altra patria – la fede musulmana – reagisce al capitalismo, in puro stile beat, ritirandosi in campagna, senza elettricità, usando l’acqua del pozzo, costruendosi tavoli e sedie, come un Walden, un cercatore di quiete (in favore di telecamera). C’è sempre qualcosa di ambiguo negli atteggiamenti di Ali – ci è, ci fa, ci crede davvero? – d’altronde, egli spettacolarizza ogni scelta, ha capito che lo sport è uno show e fa teatro, la sua è una rivolta teatrale. Ha bisogno di occhi, del Ciclope della tivù da accecare di sguardi, flirta con il video, invade l’immaginario, è il Vitello d’Oro e l’agnello che vuole essere scannato – ce la fate?, scannatemi!

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La questione è sempre il nome: qual è il tuo nome? Come vuoi essere chiamato? Quali lettere ti accerchiano? E come ti chiami, tu, nell’esatto della solitudine?

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Senza sfinirci su ciò che già sappiamo – “The Rumble in the Jungle” contro George Foreman, ad esempio, o i legami con Malcolm X – il film non nega la fine del campione, guarda al tramonto, le gambe bloccate, il viso visibilmente gonfio, le botte prese da Leon Spinks, da Larry Holmes, da Trevor Berbick (nell’incontro del dicembre 1981, a Nassau, l’ultimo, battezzato “Drama in Bahama”). Ali, il profeta del corpo – perché la carne è l’esatto peso del vero –, della carnalità dilagante, dell’esuberanza biblica, cade, il corpo gli si torce addosso, e quel fenomeno di fermezza trema, e quell’uomo che ha ballato sotto i corpi rovesciati di falangi di pugili è martirizzato dal fremito, quel talento nell’arte sofistica non parla più. Eppure, indomito, continua a consegnare il corpo ai nostri occhi dentati, come a dire: hai visto?, guarda cosa sono diventato, squartami. Chissà se qualcosa danza ancora dentro quel corpo disfatto. Alle Olimpiadi di Atlanta, nel 1996, dimostra che è lui, fragile, menomato, infermo, la fiamma; diversi anni prima, alle Olimpiadi del 1960, a Roma, un ragazzo di 18 anni di nome Cassius Clay, dall’eleganza sopraffina e dall’agilità inaudita, nuda, una specie di Whitman del quadrato, cominciò il canto di se stesso sulla faccia torbida del polacco Zbigniew Pietrzykowski. Un altro polacco, Giovanni Paolo II, in quel giro di anni, fece la stessa scelta di Ali: mostrare al mondo la ferita del Parkinson, il licenziamento del corpo, preda di altro e non del sé, come grazia. Si incontrarono, il papa polacco e il pugile musulmano, nel 1982, era maggio, parlarono di boxe, entrambi combattenti indomati. L’uomo che fu acclamato come Cassius Clay e che decise di farsi chiamare Muhammad Ali muore nel giugno del 2016, tre anni fa. (d.b.)

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