Di cosa parli con un ragazzo di 19 anni? Della vita e della morte, sulla vertigine della giovinezza, che di per sé è diamante. Magari. I diciannovenni, oggi, tendenzialmente, tendenziosamente, non hanno idea di cosa fare nella vita e non considerano la morte una possibilità concreta – a meno di non essere stati benedetti da una tragedia. A volte, non basta neanche quello (ho visto ragazzi strapparsi i capelli e le palpebre per la morte tragica di un amico e del nonno, e poi bellamente scordarsene pochi giorni dopo: non è colpa loro, siamo in una civiltà che al sole dei consumi annienta l’idea stessa del morire, e comunque la morte farà il suo corso, maestra, anni più tardi). Tendenzialmente, con un ragazzo italiano di 19 anni parli del nulla. Cosa facciamo, ci vediamo, dove andiamo, si vedrà, faremo, diremo, lettera&testamento… Poi, certo, generare opinioni generiche è orrendo. Tant’è. Genericamente i maturandi di oggi non hanno letto Moby Dick, non sanno chi è Francis Ford Coppola, hanno qualche vaga reminiscenza di Pier Paolo Pasolini, non sanno a cosa corrisponda il nome Albert Camus. Non blatero a caso. Faccio esperimento con ragazzi ventenni, da anni. E, sia chiaro, della ‘cultura’ m’importa niente. M’interessa, appunto, la vita e la morte. Bene. Fino a qualche anno fa c’erano cose, per così dire, date per scontate. Era scontato – anche se non era detto che l’avessi letto con il microscopio – che conoscessi Pasolini, Camus, Coppola. Ora no. L’azzeramento è totale. Conosci Il mito di Sisifo? No, però ho letto Sofia Viscardi, mi fa una. Ecco, siamo messi così. D’altronde, se parli con i genitori di questi maturandi – che non hanno più la scusa dell’aurea giovinezza, neanche quella – è ancora peggio.
Da qui si parte, da questo nuovo mondo della cultura. Nella mia osservazione – molto banale – non c’è trama di giudizio: le cose stanno così. Stop. Che fare? Bisogna cambiare la scuola. Bisogna cambiare l’idea stessa di scuola. Ma questo – non credo al caso – non pare il cuore del governo Di Maio-Salvini (con il terzo incomodo, a tenere il moccolo, Conte), che si occupa di quello che si occupano tutti, lavoro, soldi, ‘flussi’ migratori (manco fossero mosche, ma perché non ‘fiumane di umani’?). Vengo al punto. Il punto è che della letteratura frega niente a questo Belpaese di Dante. Pigliate il tema di Maturità, che è un regalino del vecchio Governo, postumo. L’idea che lo Stato ha della letteratura si rispecchia nella scelta del brano per l’analisi del testo, la traccia eminentemente letteraria. Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani. Scelto non certo perché Bassani è un grande scrittore, ma perché è funzionale alla ricorrenza della promulgazione delle leggi razziali in Italia, era il 1938. La storia, infatti, di cinematografica bellezza – Vittorio De Sica vi ha tratto l’omonimo, un po’ annoiato, film, nel 1970 – racconta la triste vicenda di abbienti ebrei ferraresi, deportati in Germania, nei lager nazisti. L’arte di Stato, come sempre, deve raccontare qualcosa di condiviso, di condivisibile; l’arte, invece, di per sé, marca l’indifeso della differenza, urta, urtica. Povero Giorgio Bassani, piegato dai voleri ministeriali, piagato da una idea perbenista di arte, spiattellato in faccia ai maturandi. I quali, ruggiranno sbadigli. Perché, se stava tanto a cuore Bassani, non è stato scelto un brano da Gli occhiali d’oro, romanzo più contorto, dove si scontrano differenti diversità (il narratore, ebreo, e il dottor Fadigati, colto, ma emarginato e vilipeso perché omosessuale)? Perché la letteratura importa finché è appiattita sulla ‘ragion di Stato’.
Si rischia, così, l’allucinante. I maturandi conoscono Giorgio Bassani, ma ignorano, chessò, Lev Tolstoj, Fëdor Dostoevskij, Albert Camus. Ai maturandi fanno sorbire i romanzi di Calvino, e nessuno che parli loro di Joseph Conrad; fanno i gargarismi con Quasimodo, senza avvicinarsi a William B. Yeats, a Dylan Thomas, a W. H. Auden, cioè ad autori che possono davvero, nel tuffo carpiato di un verso, cambiare la vita. Insomma… non puoi dare da leggere a un diciottenne Il nome della Rosa – ma di solito siamo al livello di Harry Potter – senza sincerarti se abbia letto I fratelli Karamazov, pure in una riduzione intelligente compiuta dal prof. Se i ragazzi coltivano ora una idea pietosamente utilitaristica – avvertendone, per altro, la palese inutilità – della letteratura, figuriamoci dopo, quando saranno come i loro genitori, carrieristi dal sorriso smodato e dalla casa smodatamente grossa.
Tornando alla riforma della scuola. Eccola, in pochi punti funzionali. A scuola bisogna tornare a insegnare come si deve – cioè, con un numero congruo di ore – la musica e l’arte, che sono il cuore della nostra identità. Poi bisogna fare un po’ di artigianato – anche nei licei. Cioè: imparare come si sbozza un tozzo di legno, come si fa una sedia, un tavolo, come si cucina il pane. Garantire al ragazzo la sopravvivenza mentale e reale, ecco. Stando a scuola anche il pomeriggio, ovvio. E costruire un programma letterario degno. Alcuni autori sono impensabili a quell’età. Alcuni esempi a casaccio. Sostituire Manzoni con Dostoevskij. Poi. Dopo Dante, Petrarca, Boccaccio, saltare a piè pari nel contemporaneo – ci sarà tempo, cioè testa, per recuperare Ariosto e Tasso – leggendo Conrad, Joyce, Virginia Woolf, Philip Roth, Cormac McCarthy. Portare scrittori e poeti vivi, viventi nelle scuole. A testimoniare che una vita votata alla gratuità dell’opera e alla candida bellezza della forma è possibile. Ma, si sa, gli scrittori viventi, se veri, fanno paura. Nella tomba, invece, fanno comodo. (d.b.)