
“Invece piansi in anticipo”. Sulla tomba di Guido Ceronetti
Cultura generale
Blu Temperini
Zia Emily la chiamava “Marziale Mattie… tamburo e bandiera insieme”: Martha nacque alla fine di novembre del 1866, quando la zia appuntava, sul rilievo di un foglio,
“Sono ciò che ho –
un essere – con le lentiggini –
credevo scegliessi una Guancia di Velluto
semmai d’Avorio –
non la vorresti – al posto Mio?”
Austin, il fratello più grande di Emily Dickinson, aveva sposato Susan Huntington Gilbert nel 1856, dopo tre anni di fidanzamento; il primo figlio, Edward ‘Ned’ era nato nel 1861. Bella, cosmopolita, sensibile, Susan, ‘Sue’, diventò la più intima amica di Emily. Le lettere testimoniano un legame leale, letale: Sister, le scrive Emily, nell’agosto del 1873, “La nostra separazione è stata alquanto disordinata e non so stabilire chi in effetti sia partito. Devo stare attenta a non dimenticare nessuno… Le rammento quanto la amo – Fatto trascurabile: anche se Dante non la pensava così…”. Fu Susan, poetessa d’occasione, per trazione, si direbbe, a pronunciare il discorso funebre sul corpo morto di Emily, nel 1886; nei giorni della loro amicizia-primizia, la Dickinson sperava di vivere con ‘Sue’ una nuova infanzia:
“In questo pomeriggio Susie, ho un solo pensiero, e quel pensiero riguarda te, e una sola preghiera; cara Susie, anche quella riguarda te. Che tu e io, mano nella mano, come facciamo dentro di noi, possiamo vagabondare lontano, nei boschi e nei campi, come fanno i bambini, possiamo dimenticare tutti questi anni, possiamo dimenticare affanni, e tutte e due ridiventare bambine…”.
Il discorso funebre di Susie fu usato come spunto da Mabel Loomis Todd per curare, insieme all’onnipresente T.W. Higginson, l’edizione dei Poems by Emily Dickinson del 1891. Si trattava della “Second series”: il primo volume dei Poems era uscito l’anno prima, con ampio successo. La ‘leggenda’ di Emily vagava, screanzata dal pettegolezzo, dal Massachusetts al resto del mondo. Volitiva, magnetica amica di Emily, Mabel si era trasferita ad Amherst nel 1881, insieme al marito, l’astronomo David Peck Todd. Fu, appunto, l’apparizione di un astro, di un vulcano, meglio ancora: sia il figlio di Susan, Ned, che il marito – il fratello di Emily – persero la testa per Mabel.
In questa storia, Martha ‘Mattie’ Dickinson fa la parte di Atena, della giustiziera. Ribadì con forza sovrana di essere l’ultima – e unica – erede diretta dei Dickinson, dopo la morte del padre (nel 1895), del fratello Ned (nel 1898) e di ‘Gib’, Thomas Gilbert, il fratello più giovane (nasce nel 1875) e più fragile (muore di tifo, a otto anni: una fotografia lo immortala con lunghi capelli biondi e uno sguardo ferreo). Alla morte della madre, nel 1913, ereditò le lettere e le poesie che le aveva inviato zia Emily. Martha aveva passato l’infanzia con la zia: ne ricorda i sortilegi, il genio retrattile, la vita corsiva e corsara, da eterna fanciulla, intoccata.
Pianista di talento, Martha studierà a New York: durante un viaggio in Boemia, nel 1902, conosce Alexander Bianchi, capitano della guardia imperiale russa a cavallo. Esordio di un matrimonio infelice: romantico, scaltro, vago, il capitano fu accusato di frode; la coppia si mollò nel 1908, per divorziare definitivamente nel 1920. Poetessa dal valore incerto, scrittrice dimenticata di libri come The Cuckoo’s Nest (1909), A Cossack Lover (1911), The Kiss of Apollo (1915), Martha Dickinson Bianchi è nota soprattutto per aver curato, nel 1914, una nuova edizione delle poesie della Dickinson, The Single Hound. Poems of a Lifetime. Sono raccolti 142 testi che fanno parte del tesoro privato di famiglia: frammenti di versi, fratture verbali, calpestii di aggettivi aggettanti, dove è percepibile l’intervento di ‘Mattie’, teso qua e là ad ‘aggiustare’. È comunque un testo – di cui pubblichiamo l’introduzione di Martha, che ricompone un ritratto di Emily, l’atmosfera fatata che la circondava – che contiene sortilegi, dal fascino immediato. Nel 1955, Thomas H. Johnson sistemerà il repertorio poetico della Dickinson così come lo conosciamo.
La guerresca dedizione di Martha – che morirà a New York nel 1943 – è testimoniata anche dal libro biografico Emily Dickinson Face to Face, pubblicato nel 1932.
The Evergreens, la villa di famiglia dove Martha è cresciuta insieme ai genitori, poco distante dalla casa di Emily, è ora parte dell’Emily Dickinson Museum ad Amherst.
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La romantica amicizia tra mia zia Emily Dickinson e “Sister Sue” durò dalla giovinezza fino alla morte. La prima poesia che le ha inviato è datata 1848; probabilmente, le ultime parole di zia Emily sono quelle che ha scritto in reazione a un messaggio di mia madre, “La mia risposta è un immotivato Sì, Sue”. Durante l’ultimo anno della sua vita, mia madre ha letto e riletto le poesie di Emily, e le sue innumerevoli lettere, indecisa sullo scopo da assegnare a questo tesoro. Alla fine, è toccato a me scegliere se darle in pasto al fuoco o consegnarle a chi ama il particolare genio di mia zia.
Infine, mi hanno ispirato queste note, scritte poco più che ventenne:
“Cara Sue,
apprezzo le tue lodi perché so cosa sono. Se potessi rendere orgogliosi di me te e Austin, un giorno ben lontano, mi crescerebbero le ali ai piedi. Emily”.
Questa frase corona questo volume, offerto alla memoria d’amore di queste “Care, Donne morte”.
Inoltre, mi pare giusto rivelare una fase di zia Emily, nota soltanto a noi che abitavamo assieme a lei dietro la siepe; quella donna affascinante, volitiva, brillante, di fragorosa grazia.
Mi dicono che zia Emily viene divulgata nei college come una creatura strana e rara; una reclusa mostruosità che si divora il cuore, preda di un desiderio morboso e infelice, vittima di una passione insoddisfatta; so che è stata definita da un noto conferenziere “un Walt Whitman epigrafico” e che un illustre critico straniero ha dichiarato che è “la più grande mistica che l’America abbia prodotto – seconda soltanto a Ralph Waldo Emerson”.
Per la nipote e i suoi nipoti, la zia proveniva dalla stirpe delle fate, simile all’alito di brina sul vetro della cameretta, in inverno, al colibrì che scintilla in estate; realizzava ogni nostra più vivida fantasia, i confidenziali desideri contrabbandati, l’autentico spirito dell’Isola-che-non-c’è.
Ci adorava. Parlava ai suoi tre amati bimbi come se le nostre opinioni avessero un peso, i nostri segreti fossero importanti, ma restava una indimenticabile compagna di giochi. Una volta, mio fratello Ned, bambino, si bloccò a fissare la stella della sera: “Voglio andare lassù, zia Emily”, disse, con fare malinconico. “Va bene”, gridò la zia, “vai a prendere il tuo cavallo, arma il calesse, ci andremo ora!”. Fu il bimbo a rimproverare quella leggerezza: “Zia, non possiamo andare lassù con un cavallo e un calesse!”.
Quando eravamo felici, aggiungeva al mucchio la sua briciola; quando eravamo ammalati tutto ciò che aveva diventava nostro; se scopriva il nostro dolore, si indignava con chi ce lo aveva arrecato. Allora, pensavo a lei come all’angelo vendicatore: i suoi occhi ardevano gloriosi, furibondi per i nostri torti. Un fascino soltanto suo: levitare come un’ombra sul fianco di una collina, con movimenti ignoti ad altri mortali. Nel bel mezzo delle nostre ore di Eden, volava via, fluttuando, al minimo suono che la avvertisse della presenza di qualcuno – e non era altro che il ticchettio del vecchio orologio. Di solito, mi lasciavano con lei la domenica, mentre la famiglia andava in chiesa: allora mi scortava in cantina, perché di fianco all’armadio dei vini ce n’era un altro, misterioso, da cui estraeva una torta o qualche altra prelibatezza. C’era un irreale abbandono in tutto questo da far rabbrividire, pura prodigalità del sogno.
Quando giungevamo da lei… oltre quella che Henry James chiamerebbe “un’arcaica domestica irlandese”, oltre l’altra zia, Lavinia, amata ma ordinaria, prevenuta, c’era il recinto proibito dell’“altra parte” della vecchia dimora, il nostro passaggio a Sud-Ovest, dove eravamo magnetizzati, ostinati, ignari. E dunque: annaffiare le piante con il minuscolo arnese della zia, aiutarla a glassare una pagnotta di plumcake per la cena di suo padre, guardarla mentre ci consegnava le caramelle scure, immancabilmente preparate per noi, condividere le sue brevi crudeltà, quelle che la tenevano lontana da tutti, gli intrighi orditi per superare in astuzia la perpetua impopolarità del gatto… quali altri gioie avremmo potuto sperare?
Era più eccitata per la morte di una mosca di quanto lo fossero i suoi vicini per lo schianto di una diligenza. Se l’arte è “appropriata esagerazione”, come dice Mérimée, beh, lei era una incomparabile artista del vivere.
Nulla era proibito al suo cospetto: ma eravamo così intimoriti nel disturbarla; ci sembrava la piccola fanciulla di neve di Andersen, da un momento all’altro, se fraintesa, poteva sciogliersi davanti ai nostri occhi.
Scriveva le sue poesie su sporadici foglietti di carta, a volte erano carte dai bordi dorati, con marchio parigino, spesso erano cartigli anonimi, resti di una nota intestata con i riferimenti dello studio legale del padre. Ciascuno di questi fogli è ripiegato, indirizzato semplicemente a “Sue”, consegnato al primo passante. Sebbene vivessero vicine, separate da un ampio prato verde, a volte passavano giorni o settimane senza che si incontrassero. Mia madre era felicemente occupata nelle faccende di casa: la luce che proveniva dalla stanza di zia Emily, che fendeva l’inverno crepuscolare e ardeva fino a tardi se restava sveglia tutta la notte, per proteggere le sue piante dal freddo, era un muto saluto tra loro, limpida appendice ai messaggi scritti. Doveva esserci una sorta di richiamo per l’anima, una clausura nel calore, nella giovane casa del suo unico fratello Austin, con mia madre e i suoi tre figli. Chiamavamo zia Emily “Donna unica al Mondo”, “Valanga di Sole”, “Sorella di Ofir”.
Era “eternamente preoccupata per la morte”, ma benché il soprannaturale primeggiasse nella sua immaginazione, ogni mistero minore le provocava panico o istanti di estasi. Se riusciva a superare in scaltrezza la vigilanza della domestica e a contrabbandare le uova appena raccolte portandole a mia madre, si sentiva un pirata, un brigante. Ogni genere di sorveglianza la irritava, provava a eluderla con questi piccoli commerci del cuore, con gli enigmi del suo Essere. “Concedimi la libertà o la morte – ma se puoi, dammi la libertà”, era solita gridare.
Capiva i significati nascosti che si agitano sotto la facciata diplomatica, commentava gli avvenimenti della politica estera e interna con sorprendente acume.
Timida, fisicamente fragile, propensa alle crisi, la sua mente osò librarsi tra la terra e il cielo. L’apocrifo e l’apocalittico si fondono in lei, e spiegano ciò che i superficiali scambiano per blasfemia. Il suo pensiero sopravanza e arretra, è pudico e arrogante, è vampiro e angelo, impenna e annega; il suo inevitabile senso della tragedia, la sua inimitabile percezione della commedia, la riverenza soffocante, la sfrenata invasione negli affari intimi del Divino, i pettegolezzi biblici, la rendono una vagabonda che sfida le ispirazioni, che accetta abbaglianti rivalità. Si crogiolava nell’apertura alare del suo intelletto, così universale da identificarsi in ogni elemento dell’essere, in ogni frammento della vita.
Preferiva gli uomini alle donne: li trovava più stimolanti. Posso ancora vederla, in piedi, nella vasta sala superiore, in un pomeriggio d’estate, con un dito sulle labbra, mentre le donne, di sotto, parlavano, “Ascoltale! Senti lo schiocco del bacio, le traditrici!”. Per la maggior parte delle donne era un enigma provocatorio. Per lei, a sua volta, la maggior parte delle donne non erano che un emblema della banalità, da cui fuggire il più lontano possibile.
La stupidità tuttavia non aveva sesso ai suoi occhi: ricordo altrettanto bene quando spiò uno sconosciuto, inviatole da un amico comune, congedandolo dopo aver guardato dalla finestra: “Il suo viso è bello e insignificante, come la luna piena”.
Aveva un modo tutto suo, drammatico, di alzare le mani mentre raccontava una storia. Era autentica: il suo spirito giocava nel corpo come l’aurora boreale fende l’oscurità del cosmo. Poiché non esiste ritratto di zia Emily, mi si perdonerà se voglio darne una sommaria descrizione. È stato detto che vestiva esclusivamente di bianco. In una lettera a un amico curioso, che non l’aveva mai vista e insisteva per avere una sua descrizione, disse che i suoi occhi erano del colore dello sherry, quello che stava nel bicchiere di lui che si ostinava a scriverle. I suoi capelli erano di quel castano bronzeo immortalato da Tiziano: li portava divisi sulla fronte, alti fino al collo, sempre coperti da un velo della stessa tinta; allo stesso modo i pittori veneziani sommavano una ulteriore grazia ai ritratti delle loro amate, bellissime donne. Le guance erano petali di gelsomini, bianco vellutato, mai screziato dal colore. Le labbra rosse schiudevano denti piccoli e regolari, come quelli degli scoiattoli; il labbro superiore, largo, conferiva alla bocca un tratto ascetico, tradiva quella posa monastica di cui lei, invero, era ignara.
Nonostante l’innata austerità dei sensi, mia zia aveva diversi amanti, li ebbe fino alla fine, pari alle rose di Browning: uomini di varia professione ed estrazione le scrivevano e andavano a trovarla; lei bruciava le loro lettere con non corrisposta cavalleria. “Sister Sue” era la confidente e l’alleata, dalle sue labbra abbiamo udito molte storie, clamorose e bizzarre. Una delle più divertenti aveva per protagonista la zia Emily da giovane: dopo essere stata accompagnata a un funerale a Hadley, sul calesse di famiglia foderato con un tessuto color crema, se ne andò dalla tomba con un affascinante cugino di Worcester, a bordo di un ombroso cavallo nero, coronando la sua infamia, ma facendosi trovare nella stanza di casa, al ritorno dei genitori.
Non chiederei altro che ripetere l’elenco delle persone stregate dalla zia. Ragazzi del college, precettori, studenti di giurisprudenza, i fratelli delle amiche, spesso i loro fidanzati o promessi sposi; e poi le amicizie, mature, letterarie, platoniche, plutoniche. Non era una persona comune. Era polvere di stelle. La sua solitudine era parte di lei. Presa dai suoi cieli distanti, era una creatura diversa, una meteora caduta da chissà dove.
Potremmo chiedere alla Sfinge se abbia mai desiderato vivere come le altre donne? Avrebbe davvero voluto diventare come le altre, o così facendo Emily Dickinson sarebbe stata costretta a perdersi? Ancestrale enigma: il genio opposto alla felicità quotidiana. La vita, l’amore, avrebbero potuto dissuaderla da quella “eterna preoccupazione dalla morte” se solo fosse stata più sollecita? No, la zia ha scelto, ha vissuto come ha voluto. Nulla la avrebbe compensata se le fosse sfuggita la propria identità, quel singolare segugio.
Martha Dickinson Bianchi
*
Avventura mosto del sé
Anima condannata a essere –
Vigilata da quel singolare Segugio
la sua identità.
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L’Anima che ha un Ospite
di rado se ne allontana,
il Divino la casa Affolla
Obliterando ogni altra necessità,
cortesia non permette
che il Padrone se ne vada quando
gli fa visita
l’Imperatore dell’Uomo!
*
Eccetto quelle ristrette, nessuna Vita è sferica,
quelle si riempiono presto, si svelano, muoiono.
La più vasta cresce lenta, e pende tardi –
le Estati delle Esperidi sono lunghe.
*
La Sua Grazia è tutto ciò che ha
così poco la esibisce,
Un’Arte per riconoscerla deve esserci,
Un’Altra Arte, per lodarla.
*
Di sì divina Perdita
non otteniamo che Ricavo
Indennità per la Solitudine
pari a passata Beatitudine.
*
Ovunque sia la dimora dei Santi,
essi fanno un bel Cerchio
per osservare che grande Firmamento
accompagna una Stella.
Emily Dickinson