Simone Casetta fotografo di viaggi e di poeti. Ora a Parigi
Cultura generale
Il giorno del solstizio vado in pellegrinaggio. Il sole ha tolto l’elmo e deposto le insegne: ha i capelli grigi. Subito, a tentacolo, i sentieri, inselvatichiti per scarsità di viandanti.
Nessuna aulica meta rende queste terre di vasti coltivi e di improvvisi, brutali boschi, ghiotte al turismo. In estate, domina il cinghiale, che raspa fino al mattino – dicono del lupo, sorgivo e calmucco: io ho visto qualche volpe, la cui rarità è cristallina. Una, per gemellaggio, l’ho chiamata Giovanni – come Juan de la Cruz, perché scatta, luminosa, da una notta oscura per immergersi nell’altra, prossima, a noi inattingibile.
Qualche giorno prima del pellegrinaggio ho scoperto il biacco. S’inoltrava tra fasci di rami secchi, in avaria, sul lato del sentiero. Un serpente nero, all’incirca di un metro e mezzo, leggiadro, silente. Innocuo per l’uomo, dicono sia cannibale. Dovrei riconoscere i segni – incessante è l’attività degli insetti. Ma tutto, sul libro mastro del bosco, è muto – lontano, muggiti a eco. Penso a quando il toro dominava questi luoghi, la luna cresceva dalle sue corna, leonine.
Forse serpente vuol dire: riconoscere il punto debole e il punto di ristoro. Riconoscere la resa e il giorno della restituzione. Quel giorno, sono tornato a casa.
In pellegrinaggio, ho portato con me Marie Noël. Me la sono caricata sulle braccia – leggerissimo il suo essere di piume. Non sembrava stupita. Fischiava, a volte, appollaiata sulla mia schiena, come un gufo. Le larghe piogge hanno cancellato tratti di sentiero, scavato tra i campi – il colore che domina: marrone, al settimo cielo, poi zanne di verde; l’azzurro, sopra, arato da vaste nubi, messo in vigne.
Dicono che Marie Noël sia morta “in odore di santità” – fetore di opere pie, dico io: lei s’incazzerebbe. Dal 2017 hanno inaugurato una causa di beatificazione. Non so se sarebbe felice. Marie Noël era una donna recalcitrante ai moniti, alle chiesastiche leziosità, al gregge dei fedeli messo a maggese. In un passo che s’intitola Dialogo nel deserto scrive:
“No, io non sono vostra. Io non voglio essere rinchiusa nel Bene, non uscire mai dal Bene, camminare a comando, dietro ai tamburi del Bene, non pensare che al Bene, non riposarmi che nel Bene, per tutta la durata della vita. Io sono altro dal Bene. Che cos’ho mai in comune con Voi?”.
Marie Noël è un’estremista. Per questo l’ho portata con me. In questi sentieri, dopo cinque ore di cammino, non incontri uomo. Le bestie, è noto, si nascondono. Tracce di capriolo, ovunque, come alfabeto sumero – di fronte a me, oltre i covili colli, a volte, il mare: sembra di pietra.
Marie Noël, estremista dell’amore:
“Chi ha riscattato gli uomini ha rivelato loro un’altra legge: AMA. L’Amore rifiuta di mangiare il suo prossimo. L’Amore rifiuta di uccidere l’uomo, la bestia, la pianta. Tutto è suo prossimo. Agli estremi limiti dell’Amore, l’Amore senza limiti è rischio di morte. L’Amore è una disobbedienza alla legge del Creatore… L’Amore vuole nutrire, distruggere se stesso per nutrire un altro, trasformarsi nell’altro per rafforzarlo e fare dei due una cosa sola. La sua legge è donare”.
Marie Noël ha avuto una vita minuscola, da piccola sarta dell’esistere. Un vita con rare tracce, nel sottosuolo del mondo. Nata ad Auxerre nel febbraio del 1883, figlia di possidenti terrieri, si è data, in sostanza, alla vita devota, a una devota inquietudine. La cura dei genitori, l’aiuto ai marginali, lo stare all’ombra della basilica di Saint-Pierre intervallati dalle brevi visite a Parigi, dai legami epistolari con Colette, Cocteau, Mauriac, Henry de Montherlant (noto per i giudizi sprezzanti, riteneva Marie la più rilevante poetessa del suo tempo). Alcuni suppongono che tra le grate di un’esistenza a tal punto segregata, alligni l’avventura d’amore, l’epopea del rimorso e del disinganno. Di fatto, opera nel segreto la vita di Marie Noël.
Dopo decenni di scrittura appartata, per lo più solitaria, fioccarono i riconoscimenti: il “Grand prix de poésie de l’Académie française”, ad esempio (andato, tra gli altri, a Yves Bonnefoy, Francis Ponge e Pierre Jean Jouve); nel 1960 fu candidata al Nobel da Maurice Bemol; nello stesso anno De Gaulle le conferisce la “Légion d’honneur”. Quanto a lei, accolse il tutto con felice distacco. Sapeva fustigarsi:
“Guardo dietro di me. Ecco il delitto della mia vita: ho tradito la Solitudine. Coloro che possiedono una solitudine – e non sono tutti – dovrebbero corazzarsi da ogni parte come il giunco o l’agrifoglio selvatico, per custodirla o difenderla con tutte le loro spine. Io non avevo spine… Ne avevo, ma, nel timore di graffiare ‘gli altri’ che volevano cogliere dei fiori o dei frutti su di me, le avevo rivolte all’interno, contro me stessa. ‘Gli altri’ sono venuti in frotta e mi hanno invasa.
Verrà l’isolamento della sera… la camera vuota e la tristezza delle assenze, ma la Solitudine sacra, in cui l’Essere s’accosta e feconda l’anima, la divina Solitudine delle nozze creatrici, non mi sarà mai restituita”.
Il sentiero scende, ripido, poi s’innalza. Attraverso una valle, vado presso una chiesa dove so che è esposto un antico Crocefisso – non invoco magiche reliquie, ho bisogno di inginocchiarmi perché molto mi deve essere perdonato (e nulla sarà perdonato). Si scivola e non ci sono corvi; non è l’ora del rapace, che ipnotizza i colli con i suoi cerchi a mastio, le ali aperte come un libro sacro. Marie Noël mi siede sul cranio, ora, ride mentre slitto sugli scarponi. Poi, con il becco, fa un buco nel collo, presso il pomo d’Adamo, marcita mela, si scava una tana, resta lì, e mi mozza il fiato. Riempie la sua tana di bacche e di foglie di castagno.
Le poesie di Marie Noël sono raccolte da Gallimard in due libri, Les Chants de la Merci e Les Chansons et les Heures. Benché sia installata tra i grandi poeti ‘cattolici’ del Novecento francese – tra Péguy, Claudel, Jean Grosjean e Patrice de La Tour du Pin – Marie non ama didascalie e classifiche, create per ammutolire – è un’ammutinata. Tra gli ultimi, rari poeti legati all’antica innografia, non mi stupisce che l’editoria la trascuri: il suo dire non bonifica i cuori, non li bea con i bacini del traditore, non conferma con messianico lassativo. Marie Noël invoca lottatori.
In Italia, la sua opera è pressoché sconosciuta. Nel 1961 le edizioni torinesi Sei hanno pubblicato come Diario segreto le sue sconcertanti Notes intimes. Ora quel “Diario intimo”, con un titolo ad effetto, Vagabonda fra terra e cielo, ritorna per le edizioni Sanpino, a cura di Emanuele Borsotti e di Francesco Occhetto, nella straordinaria traduzione di allora, di Adriana Zarri. Che meraviglia. All’epoca, il libro – pubblicato da Stock nel 1959 – fece scalpore: “Nella terra di Joubert, la Francia ha scoperto una grande moralista e uno dei suoi più grandi prosatori” (Jacques Dufresne). Più che altro, quel diario è il regesto di un’anima che grida, di un’anima mai paga. Così, ad esempio, sul tema dell’annientare se stessi:
“Non è rimasto niente di me. O mio Dio, non ho più niente da darvi, né fiore né frutto, né cuore né opere; nient’altro che un povero boccone di pane secco.
Bisogna diventare un’Ostia, questo niente di Dio, questa povera cosa che gli uomini mangiano – o che disdegnano – abbandonata, obbediente a tutti, che non ha più niente di sé stessa”.
Non siamo abituati a tale tempra – editorialmente, siamo disadatti a questo stile – abitiamo, per lo più, il cristianesimo dei vili, che macula il prossimo di sorrisi, privo di eroismo, di eremitaggio dal sé.
“Penso al bacillo di Koch e ai suoi simili, creature di Dio, meraviglie di Dio quanto l’Uomo e l’Angelo. Il bacillo rode il seno di una giovane madre, la gola di un apostolo e dice: Dio è buono. E poiché ha ricevuto dalla Provvidenza il suo nutrimento, la sua vita e la benedizione della sua discendenza, il Bacillo recita i suoi rendimenti di grazie. Gli stessi rendimenti di grazie che noi recitiamo alla fine del pasto, dopo aver mangiato il pollo o l’agnello”.
Oh, Marie, piccola vecchia, piccolo gufo con i ferri per fare la maglia, al di là del bene e del male, orientata a udire tutti i moti del creato: continua a scavare nella mia carotide, sfoga tra le vertebre, porta lì i brevi roditori a sfamarti, allunga il bavero della notte, toglimi perfino la forza per pregare, zattera di legno marcio…
Inossidabile Marie nel disintegrare tutti i nostri miseri idoli. Perfino la sepoltura, la vanagloria della stele di marmo, la vanagloria del pianto, del rimorso e dell’addio:
“Opera di pietà, sotterrare i morti: riconsegnarli alla terra da cui sono venuti affinché lavorino in essa, con essa e per essa. Ma separarli dalla terra nell’illusoria protezione della bara e del sepolcro, imprigionare l’ardente putredine germinante di vita eterna, opporsi alla sua fecondità, ritardarla elevando contro di lei degli inutili ostacoli per conservare un possesso, un posto ‘perenne’ a ciò che non ha più né avere né essere, per conservare una forma a ciò che non ha più forma, un nome a ciò che non ha più nome: davvero c’è forse in tutto questo una ignoranza ed una vanità sacrileghe.
Il cadavere ha bisogno dei vermi. È necessario che marcisca. Che sia distrutto. Che sia dissolto. È necessario che la carne nutriente renda alla terra, sua nutrice, il latte che ha ricevuto. Non deve dormire: deve agire. Deve vivere.
La tomba, ultima roccaforte, estrema resistenza dell’‘io’ umano altro non è che, forse, un peccato d’orgoglio e d’avarizia contro la comune vita eterna”.
Spietata, misericordiosa Marie.
Dai sentieri sono sparite le creature: restano i munifici insetti, aiuole di moscerini. I campi a bocca aperta. La strada è scoscesa, cavalleggeri di fango. Forse è questo il primo strato del mondo, il primo stadio dell’uomo; forse non esiste ancora né stato né istituzione – della chiesa resta la corona di spine – del mio dire, un greto.
Marie, fa’ di me la cosa che urge, la cosa che urta. Intanto, ci sediamo sui bordi di questo sentiero inerme, a spirale: piccolo gufo Marie, mangia le mie braccia, riposa sul pagliericcio dei miei polmoni – del cuore, in naufragio, non si ha notizia.