Squalificare il fatto con il gesto della mano, nella spirale del pregiudizio, tanto io sono altro, faccio altro, è inutile. Non può esserci snobismo di fronte alla vita, qualunque essa sia, di fronte all’uomo – e l’uomo è qui, è ovunque.
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Non sapevo chi fossero “Marghe Giulia Kawaii” finché non mi fanno vedere, in anteprima, un documentario. Secondo me è interessante, fanno. Marghe e Giulia sono sorelle, vivono in provincia di Napoli, hanno 12 e 9 anni. Il loro spazio YouTube raccoglie centinaia di migliaia di ‘visualizzazioni’. Insomma, tante persone le guardano. E loro cosa fanno? Niente. Vivono. Il video “Apertura regali natale: Marghe piange a dirotto per 5 minuti” – con sfida implicita: “Guarda il video e prova a non piangere” – è stato visto da 2 milioni di persone. Insomma, “Marghe Giulia” potrebbero dirigere un’azienda o darsi allo sfarzo elettorale.
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Il meccanismo è il consueto: vedo la mia vita rappresentata da altri e sono felice. In ogni caso, meglio ‘vedere’ più che ‘vivere’. Vivere è troppo dolore, troppa fatica: meglio ancora commentare le vite altrui. Delle sorelle diventate un fenomeno sociale imparo qualcosa guardando il documentario di Alberto Gottardo e Francesca Sironi, Marghe e Giulia. Crescere in diretta, che sarà in onda da domenica 14 luglio (vedete tutto qui). Il documentario è sobrio, spoglio, crudo: un film della desolazione occidentale. Non ci sono commenti, si entra nella vita vera delle sorelle. Vissuta in virtù della vita fittizia, desunta dai video che le due postano di continuo.
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Alcune cose mi sorprendono. Le allineo come vengono. La prima è la tutela dei minori. La dico così, brutale. Chi svolge il lavoro giornalistico conosce bene la cosiddetta “Carta di Treviso” del 1990, che “disciplina i rapporti tra informazione e infanzia”. Almeno sulla carta, bisogna proteggere la vita privata del minore, evitarne l’identificazione, ad esempio, se coinvolto in casi ‘particolari’. Addirittura “il bambino non va intervistato o impegnato in trasmissioni televisive e radiofoniche che possano lederne la dignità o turnare il suo equilibrio psico-fisico”. Torno a dirla brutale: se sbatti un minore in prima pagina si ritiene che lo shock del successo – nel bene e nel male – possa turbarlo atrocemente. Questo, va da sé, è un altro caso: “Marghe Giulia” – così, come fossero un tutt’uno, una stessa persona – hanno genitori che le amano, si prendono cura di loro. Mi domando: e quando cresceranno? E quando sarà ingiustificata la vita passata via video? E quando, banalmente, non avranno più seguito, cosa accadrà?
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Dire: portatele a fare una gita in montagna, senza cellulare, a godere il mondo, non ha senso. Si cresce credendo che la propria vita abbia valore se condivisa da miriadi di ignoti. Il massimo dell’ego – ma a chi vuoi che importi della mia vita avara?, mi domanderei – con il massimo della fragilità – non so vivere senza approvazione di massa.
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Come sempre: cosa c’è di male?, si dice. Nel documentario si vede il set creato ad arte, in casa, con le luci adatte a pulire il video e rendere accattivanti momenti (e promozioni). La vita come messa in scena, come sceneggiato. Solo che – ci torno dopo – nello sceneggiato accade qualcosa, c’è una sceneggiatura, appunto.
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Mi colpisce che, fuori dal video, “Marghe Giulia” spadroneggiano. Sono più adulte degli adulti, più realiste del re. Nella vita costantemente registrata non c’è il ‘gioco’, che è la camera d’aspetto della ‘prova’. Nel gioco vita e morte si fronteggiano con la certezza che il bambino è eterno. Qui non c’è un gioco, c’è già un ‘utile’: si fa qualcosa per un risultato – che siano visualizzazioni o soldini. Ma l’infanzia è affrontare l’avventura più grande per il gusto, gratis, perché si è intoccabili e senza prezzo.
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Se tutto è ‘pubblico’ si è privati del cuore, si perde l’anima, che defluisce nelle prime parole che mi vengono in mente, a telecamere in vista.
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Penso a questo. Inutile dire ai figli: molla il cellulare, mettiti a leggere. Non ci credono neanche i genitori, di solito pessimi lettori. La letteratura, di per sé, per fortuna, è inutile. Però: insegna ad ascoltare un altro, pur concentrati su se stessi. Insegna a ritenere le vite degli altri – qualsiasi siano – degne quanto la nostra, e forse di più. Chiede una resa al sé, donandosi a parole scritte da altri, vivi o morti, non importa. L’immagine finale del documentario – di rara raffinatezza esegetica – è agghiacciante. In una strada, sera. La famiglia si abbraccia, mentre una delle figlie, la più grande, riprende con un cellulare. Dicono quanto si amano e si vogliono bene. Chiasso in diretta YouTube. Il regista allontana la telecamera: sono quattro, si abbracciano, in mezzo alla strada, e il mondo è sempre più dilatato. Da lontano, quella non sembra una famiglia ma una prigione, una fortezza. La solitudine è agghiacciante.
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Soprattutto, la noia. “Marghe Giulia” lo dicono chiaro, a un certo punto, non fanno niente. Apriamo pacchi. Facciamo cose. Facciamo un po’ di tutto. Cioè, niente, appunto. Perché oltre ad aprire pacchi e fare le faccine e dire qualche battuta – anche il ‘format’ fisico è perfetto: la più grande è magra e mora e scaltra, la piccola è bionda, grassottella, simpatica – non succede niente. Il niente della vita odierna, si presume. Niente da dire, niente da fare, nessuna prospettiva di sogno che superi la trincea dei giorni, nessun Everest da scalare, nessuna isola sulle nuvole da visitare, nessun drago da soggiogare. D’altronde, bisogna rassicurare. Cioè, lasciare i figli assisi in una anonima, anomala abulia. (d.b.)