22 Gennaio 2021

Benedetta violenza. Riflessioni intorno a un romanzo di Manuel de Pedrolo

Se non conoscessi l’editoria italiana, così spesso solerte a importare polpettoni cervellotici e indigeribili, non mi stupirei davanti alla decisione del piccolo ma efficiente editore trentino Paginaotto di stampare il romanzo Atto di violenza di Manuel de Pedrolo.

De Pedrolo (L’Aranyo, contea di Segarra in Catalogna, 1918-Barcellona, 1990) risulta essere uno degli scrittori più significativi della Catalogna, autore di numerosi romanzi, saggi, pièce, poesie, e anche traduttore, in particolare di letteratura francese e nordamericana. Era un “intellettuale engagé” perché durante la guerra civile spagnola si affiliò alla Confederación Nacional del Trabajo e alla Federación Anarquista Ibérica, combattendo anche con l’esercito repubblicano. Poste quelle organizzazioni fuori legge dal regime franchista, de Pedrolo seguitò la sua battaglia politica attraverso l’attività letteraria, di cui Atto di violenza costituisce l’esempio più schietto. Vediamolo un po’ più da vicino.

Il romanzo fu scritto fra il 1960 e il 1961, dunque in pieno regime, e fu un vero e proprio atto di coraggio, poiché vi si inscena, naturalmente auspicandolo, un corale ammutinamento, sintetizzabile con la frase-chiave del romanzo: «È molto semplice: restate tutti a casa»: una frase a noi familiare, ed è un peccato che l’editore non l’abbia adoperata come sottotitolo redazionale. L’ordine a noi così familiare non proviene dal governo, bensì da qualcuno o qualcosa (un gruppo di individui, un’organizzazione politica clandestina) non specificato e sicuramente dal basso, ed è volto a contrastare la dittatura del Giudice Domina, alter ego letterario di Francisco Franco. Quasi nessuno si reca più al lavoro, le saracinesche dei negozi restano abbassate, qualche soldato diserta per non rendersi complice di un massacro o di retate, e persino le puttane si rifiutano di batter chiodo, le defezioni tra la popolazione sono pochissime e biasimate.

Lascio al lettore il piacere di scoprire come si svolgono i fatti e come termini la vicenda. Dal canto mio vorrei però offrire qualche spunto di riflessione commentando alcuni passaggi del romanzo.

«Da anni ormai – afferma un personaggio – si scrivono quasi solo opere anticonformiste e molte vengono addirittura pubblicate. Però quasi nessuno se ne accorge. Nel senso che tutti lo trovano naturale, persino, ecco la cosa più strana, i sostenitori dell’ordine costituito. Ormai sono abituati a credere che chiunque la pensa con un minino di onestà sia, in un modo o nell’altro, all’opposizione (…). Se ci pensi è veramente paradossale: l’amministrazione Domina ammette e trova normale che esista un’opposizione, ma al tempo stesso pretende di essere l’unica in grado di dare un senso alla nostra vita, di unirci in un’impresa comune». È una riflessione abbastanza arguta, poiché mette in risalto almeno un paio di caratteristiche proprie di qualsiasi regime autoritario: primo, l’opposizione (quando c’è) diventa parte del sistema perché, appunto, nessuno si avvede di essa metabolizzata dal regime. Secondo e più importante aspetto, è aver rilevato la serenità con cui il regime amministra la vita civile e politica dei cittadini: accetta bensì l’opposizione e solo perché innocua, ma al contempo esclude qualsiasi visione alternativa alla sua. Se ci pensiamo bene, è ciò che accade anche nella decadente democrazia, anzi forse soprattutto qui: pur esistendo voci di dissenso, contano come il due di picche a briscola, e l’autorità a ogni buon conto se ne fregano, imponendo la sua visione e la sua prassi vieppiù.

Assai istruttivo è poi un dialogo tra due intellettuali.

«“Purtroppo è una generazione spaesata, abbruttita da ordini stupidi, addormentata dal potere ipnotico di una serie di slogan vuoti, ripetuti all’infinito. Adesso sarà molto difficile rialzarsi” (…). “Ma che potevamo fare quindici anni fa? Non sapevamo come sarebbero andate le cose”. “Forse non lo sapevi tu. O io, se vuoi. Però lo avrebbero dovuto prevedere tutti i professionisti della vita pubblica. Non potevano essere tanto ciechi da non accorgersi che, all’improvviso, ogni questione veniva affrontata con uno spirito reazionario, ostile al progresso”». La pressione materiale, secondo de Pedrolo, instupidisce e alla fine si fa l’abitudine anche a ordini e leggi idiote; per contro, chi dovrebbe sorvegliare sulla libertà è così cieco da non accorgersi della piega storta che la vita sta prendendo. Eccepisco però su quel fuggevole inciso: «all’improvviso». Storia insegna che qualsiasi evento politico non si ingenera dal giorno alla notte, ma viene preparato a lungo e soltanto appunto i fessi non si rendono conto della china vertiginosa da cui si sta per precipitare. I fessi – oppure le carogne che preferiscono non vedere perché dalla loro cecità traggono benefici.

Davvero istruttiva è un’altra considerazione messa da de Pedrolo in bocca a uno dei tanti attori di questo romanzo: «Non basta che all’improvviso un popolo si ribelli all’ordine costituito. I movimenti di contestazione non portano da nessuna parte se non contengono qualche fermento creativo, una volontà di costruire sulle rovine, una volontà che si traduca in un programma più o meno preciso. Ovviamente questo è un problema mondiale. Il dramma dei nostri giorni è che non abbiamo nulla con cui sostituire i valori della civiltà che rinneghiamo. E con questo intendo dire che siamo disillusi. Viviamo in una sorta di terra di nessuno, tra quello che è stato, mediocre e schiavizzante, e una nebulosa che non sappiamo come dissipare. È come se di colpo fossimo finiti in un vicolo cieco. Sappiamo che non è possibile andare avanti, ma non riusciamo a trovare un’altra strada. Sappiamo solo dire: no! no! E così sprechiamo le nostre energie». Questo è un punto fondamentale e, pur essendo il romanzo stato scritto negli anni Sessanta, attualissimo. Bisogna infatti diffidare dei movimenti insurrezionalisti, dello spontaneismo, delle improvvise fiammate, che quasi sempre son fuochi di paglia o piuttosto fuochi fatui. La diffidenza è basata su una semplice constatazione: a fronte di cittadini furiosi abbiamo sempre uno Stato preparato, addestrato e armato, sicché uno scoppio rivoltoso e inconsulto veicola tanti più danni che benefici; e inoltre dispone lo Stato a pigliare maggiormente il polso alla società. Abbiamo visto in Italia ad esempio cosa accadde quando qualche testa calda provò a rovesciare lo Stato (posto che quello fosse il suo intento): non solo sono stati sconfitti, ma hanno fornito il pretesto alle classi dominanti di imprimere ulteriori giri di vite, e per soprammercato i presunti rivoluzionari si sono alienati le simpatie anche di frange della popolazione potenzialmente concordi con certuni principi. Diversi anni fa un vecchio anarchico torinese rimproverò aspramente i suoi compagni che in un empito di ribellismo avevano sfasciato le vetrine d’una libreria di proprietà d’un reazionario di quelli impestati, ammonendoli: prima di distruggere una vetrina, dovete esser capaci di lavorare il vetro! Fuor di metafora, è il discorso di quel personaggio del romanzo, fin troppo morbido nella critica. O si ha un programma (con tutto ciò che esso comporta) oppure ci si schianta.

Ed è proprio per questo significativo e giusto guizzo che stupisce l’utopismo pedroliano che ora illustriamo.

Manuel de Pedrolo Molina (1918-1990)

De Pedrolo non era affatto un marxista, benché eterodosso, come qualcuno scrive. La sua biografia, e Atto di violenza, parlano piuttosto, anche se di lontano, di anarco-sindacalismo o di sindacalismo rivoluzionario à la Sorel, ambiente da cui proviene proprio l’idea dello sciopero generale, quale in effetto è l’insubordinazione diretta e indiretta descritta nel romanzo. L’idea di Georges Sorel era persuaso che un’astinenza dal lavoro che coinvolgesse tutte le categorie potesse suscitare la reazione repressiva della classe dominante, evento cui di necessità avrebbe fatto seguito un’insurrezione popolare indirizzata prima al rovesciamento dello Stato e poi all’instaurazione d’una società diciamo socialista.

La principale critica marxiana a tale concezione della rivoluzione – che rivoluzione non è – si edifica sulla scarsa o piuttosto nulla scientificità della proposta derivante dalla sua tensione utopica, dove per scientificità si esige una conoscenza il più possibile – e per quanto possibile – precisa delle condizioni materiali e psicologiche del momento. Se ad esempio oggi noi, sapendo che uno degli strumenti più potenti ed efficienti per «sorvegliare e punire» sono internet coi suoi big data, facessimo passare la parola d’ordine: «È molto semplice: spegnete i computer» (e i telefoni cellulari, e i tablet). Saremmo in un’eventuale simile scelta agevolati facendo leva anche sul così detto “smart working” o dalla didattica a distanza. Ci costringete a lavorare e a seguire le lezioni da casa? Benissimo, noi stacchiamo la spina. Vi pare fattibile in una società artatamente parcellizzata? In via teorica sarebbe anche possibile procedere in tal senso; ma in pratica è un’illusione bella e buona, perché, come dice pur lo stesso de Pedrolo scrive, anche la nostra società è un «enorme cadavere che, lentamente, ci ha contaminato con i suoi miasmi».

Il romanzo di questo scrittore catalano ha però un indubbio merito, più evidente oggi che non mezzo secolo fa: tentare di reimmettere in circolazione il concetto di violenza; e ciò anche se la violenza descritta da de Pedrolo è in fondo piuttosto blanda. Violenza è un termine infatti espunto dal nostro linguaggio o soprattutto dalla prassi; e quando si richiama la sua applicazione è solo per biasimarla. È una strategia efficacissima e rodata nel tempo: le classi dominanti possono infliggere le pene più nefande ai popoli ma appena i popoli danno in escandescenze, sfasciano qualche vetrina o appiccano il fuoco a un paio di cassonetti dell’immondizia, ecco che lanzichenecchi tirapiedi, leccaculo di regime e istituzioni gridano alla notte dei cristalli. Insomma, il loro manganello è quello buono: quello degli altri è sempre fascista, o illegittimo e destabilizzante. Non c’è però ovviamente da stupirsi di simile tattica: sbigottisce invece la quiescenza degli oppressi, i quali fanno coro con la retorica ufficiale “non” violenta. Un paio d’anni or sono, scambiai alcune chiacchiere con una giovane ragazza, la quale, senza esser pungolata da qualche professore o amici, si era messa a leggere Marx. La rividi tempo dopo e le chiesi come andassero i suoi studi: mi rispose con un notevole candore, ma con altrettanta determinazione, in questi termini: «Condivido tutto quel che dice Marx, tranne una cosa: la violenza. Quella proprio no».

Cercai di spiegarle che non trovavo molta differenza (anzi sì, ma in altro senso) tra lo sfruttamento dei lavoratori, o il colonialismo, o una multinazionale che devasta intere aree del globo e una massa di rivoluzionari i quali, stanchi dei soprusi, decidono di passare dalle armi della critica alla critica delle armi. Aggiunsi con bel garbo, che la democrazia di cui ella andava tanto fiera e si diceva paladina, oltreché essere in netta contraddizione con i principi marxiani e leniniani, era sorta da una rivoluzione, la francese, che costellò quel Paese di morti. Tanto per dire, per raschiare via il sangue aggrumatosi su Place de la Concorde occorsero ben due anni. E ciò senza contare quel che accadde in Vandea. Al massimo si può essere contro la violenza quando essa è inutile o addirittura controproducente, come ricordavamo più sopra. C’è un curioso discorso di Bettino Craxi sulla questione israelo-palestinese, che egli fece a Montecitorio nel 1985 in veste di presidente del consiglio: «Io contesto l’uso della lotta armata all’Olp non perché ritenga che non ne abbia diritto: gli è che ritengo che la lotta armata non porterà nessuna soluzione. Quando Giuseppe Mazzini nella sua solitudine e nel suo esilio si macerava nell’ideale dell’unità ed era nella disperazione di come affrontare il potere, lui, un uomo così nobile, così religioso, così idealista, concepiva, disegnava e progettava gli assassinii politici. Questa è la verità della storia. E contestare a un movimento che voglia liberare il proprio Paese da un’occupazione straniera la legittimità del ricorso alle armi, significa andare contro alle leggi della storia… Si contesta [da parte di qualche parlamentare missino] ciò che non è contestato dalla carta dei principi dell’Onu, in cui è detto che un movimento nazionale che punti e che difenda una causa nazionale possa ricorrere alla lotta armata». Oggi, sappiamo, nessun politico potrebbe permettersi un discorso simile. Magari potrà, come in realtà avviene, massacrare il proprio Paese con violenza non meno feroce di quella esorcizzata, ma non potrà nominarla e dovrà sempre esser pronto a stigmatizzarne l’uso.

E adesso due parole sullo stile di de Pedrolo. Indubbiamente egli è capace di avvincere il lettore, grazie a una prosa secca, scarnificata, e tutta al presente. Non c’è una sola parola di troppo, e anzi forse qualcuna di meno, e sicuramente talora de Pedrolo scade in qualche luogo comune ma si tratta di episodi rarissimi e perdonabilissimi. Io preferisco gli scrittori generosi, che scavano i personaggi, gli ambienti, i paesaggi e Atto di violenza lascia in questo senso un po’ a bocca asciutta. Però si fa leggere, e anche volentieri.

Davanti a un romanzo composto come spero leggerete, si è tentati di parlare di taglio cinematografico, come suggerisce Alberto Prunetti nella postfazione. Ma se mi corre il dovere di evocare questa caratteristica formale, preferisco evitare di sottolinearla troppo. Di questi tempi pare infatti che la letteratura debba ricevere il passaporto dal cinema. Si tratta di una buggeratura. Si dovrebbe invece dire piuttosto che certe pellicole rassomigliano in alcuni casi a dei romanzi. Se ho preso le giuste informazioni, è nata prima la letteratura del cinematogafia. Preferisco pensare che de Pedrolo, per scrivere Atto di violenza, più che ai fratelli Lumière abbia pensato a Balzac o a Zola.

Per concludere una piccola e troppo facile profezia. Per il tema trattato e per la singolare coincidenza che ne emerge, nonché per via dell’insipienza delle nostrane penne-in-vendita-al-miglior-offerente, temo – e sono persino pronto a scommettere – che non ci saranno recensioni di questo romanzo, o forse pochissime. Il che sarebbe l’ulteriore dimostrazione non tanto della distrazione letteraria dei nostri intellettuali e gazzettieri, ma soprattutto di un altro tipo di distrazione.

Nel mio piccolo, io non posso altro fare che invitarvi a leggere Atto di violenza e di diffonderlo. Nonostante le sue magagne, è una lettura confortante.

Luca Bistolfi

*In copertina: Jusepe de Ribera, Apollo e Marsia, 1637

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