31 Ottobre 2022

“La bellezza ci dispensa dal vivere”. Cioran su una bicicletta da corsa

Come si governa l’ipertrofia di una coscienza? Quali alternative ha chi esperisce perlopiù agonie per addomesticare questo troppo sentire, tra cafard e notti insonni? Cioran ha davanti a sé due strade nel 1937: mettere a tacere una volta per tutte la coscienza perennemente desta nelle acque placide della Senna, oppure inforcare una bicicletta da corsa, acquistata per pochi franchi da un connazionale intento a disfarsene per fare ritorno in Romania, in lungo e in largo per la Francia. Non meno di cento chilometri al giorno, tra soste in paesini sperduti dove rifocillarsi a poco prezzo e sigarette consumate sostando nei cimiteri di campagna, a intessere chissà che muto dialogo con i trapassati, lui che è sempre esistito al di sotto della vita e della morte.

Ricordo di questo sforzo fisico di dominio sugli eccessi della sensibilità, e possibilità per chi legge di addentrarsi nella scrittura del rumeno, è Taccuino per stenografia (1937-1938), edito da Mimesis a cura di Antonio Di Gennaro, con la traduzione di Magda Arhip. Un volumetto; una manciata di pagine, preziosa testimonianza del senso e significato della scrittura per Cioran, prima di eleggere la lingua francese come patria delle proprie ambizioni letterarie. Dopo la fascinazione adolescenziale per la filosofia, Cioran capisce presto che l’astrattezza del concetto nulla può di fronte al mostro insonnia. E poi, che ne sa Kant della debolezza umana? Nessun sistema di pensiero, per quanto collaudato, è in grado di resistere all’urto di una costante veglia, massacro di sillogismi. Appunti sparsi in una calligrafia difficilmente decifrabile – nell’introduzione alla versione francese, traspaiono la difficoltà riscontrata nel leggerla e la fatica, da parte dei curatori, di inseguire lungo le linee oblique della scrittura questo vagabondo del pensiero – raccolti durante le gite in Francia, con incursioni in Spagna e in Inghilterra, in cui il giovane Cioran, che non si sottrae alle lusinghe della vanità, definisce sé stesso “giornalista dell’eternità”. Note che ci consentono di osservare le intuizioni, che ritroveremo nell’opera edita successivamente Il crepuscolo dei pensieri, a livello embrionale.

“Ciò che ci turba in maniera così misteriosa dinanzi alla bellezza è che in qualche modo essa ci dispensa dal vivere. Il tempo si pietrifica, giacché la bellezza non sorride all’effimero. Un dipinto, una sonata o un paesaggio sono isole di cui l’agitazione della vita è gelosa. La vita invidia tutto ciò che resiste al logorio inutile. – E niente è più contrario alla vita come il rimpianto dell’eternità, presente nella bellezza. È come se la bellezza attendesse qualcosa dall’eternità”.

La bellezza come via di fuga dal gorgo del vivere quotidiano, una sosta dal corrosivo scorrere dei giorni; forse, idealmente, un attimo di respiro dall’ansia di erigere difese contro sé stesso, dal pensiero che l’universo non gli si addice. Dunque un luogo, seppur non strettamente da intendersi in senso geografico, in cui concedersi il lusso di rimpiangere l’eternità e magari tornare con la mente a quel momento perfetto, felicità assoluta e piena che è stata l’infanzia a Rășinari. Tutto il resto, cioè la vita che scorre con quei giorni che non si distinguono dalle notti, ore infinite in cui il pensiero scarnifica il pensiero, appare più come un non luogo, “un’assurdità danzante”, e Cioran è tutto intento a vedere fino a che punto si spingerà nella veglia della sua nullità, fino a quando sopporterà l’intorpidirsi del sangue nella tristezza.

Il Cioran adulto, quello che conosciamo attraverso la sua scrittura, è ciò che resta di una fanciullezza naufragata. Il trasferimento a Bucarest per volere dei genitori, all’età di dieci anni, appare il suo personale momento di svolta, quello che irrimediabilmente traccia gli anni a venire come un continuo precipitare. Non sappiamo se i cento chilometri percorsi ogni giorno, per mesi, siano stati anche un rincorrere il bambino perduto, o piuttosto un fuggire da lui: un addio fatto di muscoli stanchi e parole non sempre chiare, un ricacciare nei recessi della melanconia da insonnia ricordi che mostrano, come una condanna ingiustamente subita, la propria inadeguatezza di fronte al presente. A soccorrerlo, peraltro in modo non del tutto efficace, lo attendono uno stile sempre più ricercato e una nuova lingua da indossare come “una camicia di forza”.

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