
“Era un poeta. Impassibile e vertiginoso”. In devozione alla parola precaria
Poesia
Isabella Bignozzi
Ambigua nomea arma il nome di Li He, poeta tra i più alti d’epoca Tang, eppure sussurrato a fior di labbra, preso come una lebbra, marginalizzato rispetto ad altri, più solari lirici (su tutti: Li Bai, Du Fu, Wang Wei). Dicono di lui che è “il più eccentrico tra i poeti Tang e forse della poesia cinese nel suo complesso” (Paul W. Kroll), lo additano – nell’incontrollato gioco delle somiglianze – a “Mallarmé cinese”. I suoi testi pullulano di spettri; folgora in filigrana la figura degli “immortali” di derivazione taoista. Eccelleva nell’arte della sprezzatura lirica, Li He, nelle immagini brusche: una candela trasmigra nella forma di un martin pescatore, ad esempio, la luna muta in lepre, e via così. Per identificarlo, lo dicevano Guicai, poeta dal “demoniaco talento”, cioè, in grado di far deragliare le forme nel proprio opposto – specie di trasmutazione lirica dalla bruta materia nell’oro fantastico. Si dice di un maledettismo retrattile, refrattario al canone: pare, Li He, l’estremo pioniere di uno strambo ‘romanticismo’ cinese.
Nato nel 790 nella provincia di Henan, da famiglia d’alto rango crollata, però, alla periferia della corte imperiale, per Li He era apparecchiata una carriera di primo piano nei reami burocratici. A vent’anni tentò il fatidico esame per l’ingresso tra le falangi imperiali: gli fu impedito di svolgerlo con l’inganno; il ragazzo era troppo fatuo per indire proteste – scrisse una poesia, allora, Accarezzando la mia tristezza, tra le sue più note. Lo dicono di imponderabile precocità – comincia a comporre poesie a sette anni, a quindici ha già il titolo di maestro –, d’indole malinconica, tarlato dal male nel corpo. Viaggiava spesso, con un taccuino nella bisaccia, su cui appuntava versi, osservazioni, indizi verbali en plein air, che poi organizzava nella sua stanza, tributo a una solitudine che arricchisce.
Il suo talento fu riconosciuto e ammirato dai poeti dell’epoca, pur sconcertati dallo stile, vivido, di ombre e di nebbie; non trovò posto nel mondo, Li He, né tra i gangli imperiali né tra i monasteri, tra i picchi. Visse al lume della sua poesia. Secondo la leggenda – ma la vita di Li He ha, più che altro, i contorni della fiaba gotica – morì visitato da uno spettro scarlatto: gli intimava di scrivere le sue poesie in cielo. Il ragazzo aveva ventisei anni; il suo fantasma continua a esercitare un sinistro fascino, dopo secoli; dopo secoli, ha ancora le unghie pronte. Le poesie di Li He trovarono il favore di Mao Zedong; Roger Waters, guru dei Pink Floyd, trasse dai suoi versi Set the Controls for the Heart of the Sun, un pezzo inciso in A Saucerful of Secrets (1968).
In alcuni versi, Li He immagina un dio che invecchia, che si spiuma come un albero in inverno – sapeva che le poesie possono essere falene, possono essere iene. Non gli importava essere capito, ma essere ricapitolato dal rondò dei fiumi, da quel collier di colibrì.
***
Accarezzando la mia tristezza
Scritto alle pendici del monte Hua
Autunno, il vento raspa la terra
l’erba muore
il monte Hua è un’ombra di zaffiro
nel freddo crepuscolo:
ho colto il mio ventesimo anno
ma ho fallito la prova.
Il mio cuore è triste, appassisce
come un’orchidea dal capo chino.
Rivestiti di piume, i cavalli
sembrano fiere:
al bivio, sguaino la spada
e urlo, sfacciato. Scendo alla taverna
senza il consueto mantello:
lo impegnerò per una brocca
di vino.
Invoco il Cielo fissando la tazza
ma nessuna nuvola arretra:
il giorno è bianco, freddo
e non reca conforto.
L’ospite mi esorta:
coltiva il corpo e l’anima
ignora la folla volgare
che si prende gioco di te.
*
Un sogno
Luna, vecchia lepre, e l’astro rospo si lamentano del colore
del cielo: balestrieri fulminei dardeggiano da torrioni di nubi.
Una ruota di giada spreme rugiada da bulbi di torce.
La fenice cova i suoi gioielli su sentieri di cinnamomo.
Mille anni di trasmigrazioni galoppano come cavalli
l’acqua diventerà polvere e da lontano l’intera Cina
non è che nove tralci di nebbia. L’oceano è riassunto in una tazza.
*
Farfalle che danzano
Il salice, a greggi, batte contro le tende
le nuvole sembrano una prigione.
Un guscio di tartaruga
e vesti sgargianti.
Le farfalle del vicino oriente
fluttuano verso Ovest.
Oggi il giovane è tornato
in sella al suo bianco destriero.
*
Ballata della tigre selvaggia
Nessuno osa attaccarla con la lancia
nessuno sguaina la balestra.
Allatta i nipoti, alleva i piccoli
addestrandoli alla ferocia.
Il suo cranio è una muraglia
uno stendardo la sua coda.
Perfino Huang del Mare Orientale
teme di incontrarla al crepuscolo;
una tigre affamata sulla strada
ha sconvolto Niu Ai. A cosa serve
quella spada, appesa al muro
come un tuono? Quando alle pendici
del monte Tai risuona il grido
di una donna che soffre, i funzionari
la ignorano: i regolamenti proibiscono
loro di ascoltarla.
*
Sulla tomba di Su-Hsiao
Rugiada sulle orchidee solitarie
come occhi in lacrime.
Non esistono più legami d’amore
ma io non so tagliare quei fiori
avviluppati nella nebbia.
Erba per cuscino
abeti come tenda
il vento è la sua gonna
l’acqua la cintura di giada.
Nel suo palanchino
aspetta la fine del tempo.
Le candele, come martin pescatori,
sono stanche di brillare.
Sul tumulo della tomba occidentale
si aprono legioni di pioggia.
*
Immortali
Suona il liuto su una rupe
l’immortale, e sbatte le ali.
Nelle sue mani, le piume di un simurgh
con cui spezza le nuvole, residuo della notte.
I cervi dovrebbero bere nei freddi abissi
i pesci dovrebbero nuotare verso il mare:
Durante il regno dell’imperatore Wu
ha scritto una lettera sui fiori di pesco.
*
Dire addio
Sulla tomba di Mao-ling siede un giovane di nome Liu
giunto con il vento d’autunno.
Di notte sentiamo nitrire il suo cavallo –
ma all’alba nessuna impronta ne registra l’esistenza.
Dalle balaustre, alberi di cassia
diffondono una fragranza autunnale.
Più di trentasei palazzi germogliano:
fiori su una terra smeraldo.
I cortigiani di Wei imbrigliano i carri
per un viaggio di mille leghe.
Il vento al passo orientale è aceto
e colpisce come una freccia i loro occhi.
Esco dal cancello del palazzo
con la luna alle calcagna.
Ricordo l’imperatore e le lacrime
cadono come piombo fuso.
Le orchidee appassite mi dicono addio
lungo la strada di Hsin-yang.
Se Dio sapesse soffrire, invecchierebbe
proprio come noi. Con il mio piatto
di rugiada, preferisco viaggiare da solo.
La luce è fredda, ferina la luna:
Wei-cheng è ormai dietro di me
chiama con ferma dolcezza le sue acque.
*
Una ballata
Il re di Qin attraverso il cosmo su una tigre:
la sua spada illumina i cieli, mai così chiari.
Xihe frusta il sole, il suo vetro rimbomba;
volteggiano le ceneri del vecchio mondo e la pace regna eterna.
Beve vino dal femore del drago e invita il dio ebbro
a unirsi a lui; la sua pipa, inchiostrata d’oro, vibra nella notte.
Sul lago Dongting la pioggia ha il suono di un flauto:
ubriaco, il re urla alla luna che cambia direzione.
Nuvole d’argento, l’alba ingioiella il palazzo:
il portiere annuncia il ritorno della notte.
Nel palazzo fioriscono fenici di giada:
la voce sinuosa di una donna; tuniche ornate
con il tritone, profumo cremisi: una serva
indossa il giallo e danza il desiderio –
che il regno duri ancora mille anni.
Le candele bruciano, gli occhi della donna
si fanno lacrime, purissimi fiumi.
Li He