10 Aprile 2021

“Alla letale volgarità del mondo, al suo reale fetore”. Una lettera

“No, non è indirizzata a te”, mi dice, come da un luogo australe, una gola metropolitana. C’è chi – privilegio terribile – fa della propria stanza un Polo Sud. Invece, ripeto, è per me, la devo inghiottire, questa lettera, come facevano i profeti, spesso mutilati, agghiaccianti per imbecillità: sapevano che una parola non si ripete, che un rantolo non ha replica, si mangia. Una parola, è vero, può strangolare. Ogni tanto Luca Orlandini mi scaglia dei bolidi; ho imparato a conoscerlo ma ancora mi sfugge la radice della sua leggenda. Ha tradotto in Italia le opere più importanti di Benjamin Fondane – ha lavorato, come in una miniera verbale, nel suo Baudelaire e l’esperienza dell’abisso, per ritradurlo, rielaborarlo, uscirà quest’anno, e ne ho sentito la solitudine e il sollievo e la gloria corrusca –, ha tradotto Lev Šestov, ha pubblicato un libro inclassificabile, Ritorno agli elementi (Aragno, 2020), che per necessità ‘geologica’ ha turbato gli intellettuali da divano. Non entra nel ‘dibattito’, Orlandini, semmai si batte, o meglio, se ne sbatte; non s’incasella in ciò che definiamo ‘attuale’, ma nemmeno nell’altra bugia, la truppa degli ‘inattuali’, eppure, in mano potreste avere un ‘suo’ libro, un suo lavoro elaborato sotto altre, svariate, sgargianti, mentite spoglie. L’ho obbligato a pubblicare questa “Lettera a uno sconosciuto” perché è una scudisciata necessaria. Per me, è ovvio, che sfiguro i testi, fino al loro turibolo di sabbia, sperando ancora in una rivelazione; per me, che confido nella verità dei volti, per cui ogni mano è un patto, fino all’angolo acuto del cimitero, dove rotolano i ratti; per me, che ho certezza nell’altro mondo dacché lo vedo, ogni sera, straripare in questo, dalle finestre della cucina; per me, che mi incateno alla grammatica – cioè all’evidenza della lingua, che significa insignificando, prona ai fraintesi – senza scatenarmi nell’incanto, rotolare nella lalia, abitando il miracolo (scemo chi lo attende, il miracolo è lì, limpido); per me che accetto il confronto mentre va ammesso soltanto il contrasto; per me, che con sussiego assumo le forme imposte dagli altri, ricalcandone le ambizioni e le voluttà, mentre ho da seppellire i cadaveri in giardino, sollevare i cancelli e scegliere il pudore – ignominia dei santi – al clamore, che è poi la sottomissione a un rantolo. Ognuno ha il proprio cenacolo di certezze – o di altrettanto indimenticabili incertezze –, forse le ombre vanno lette come fossero viscere, tutti vivono nel grido, felici della caduta del prossimo, di infierire sul debole; certi parlano di onore con putrida viltà, promuovono il deserto come fosse un dessert, l’eremo – corroborato di fonti e di testi – una moda. Gli altri adorano il baal televisivo, tecnologico, il vizio delle relazioni, o il dio della rivolta concorde. Per fortuna, sono cretino, lascio i libri sul pavimento, mi faccio pigliare a ceffoni dal mare, cammino a piedi nudi. (d.b.)

Balthasar Permoser, Marsia, 1680-85

***      

Lettera a uno sconosciuto

Milano, 8 aprile 2021

Caro amico,

nella scrittura sono un abulico. Non mi difetta una qualche immaginazione, ma la volontà di organizzare il caos e la fede nelle parole. Tutto, in molti casi, viene fatto per un fine, e a me i fini, pure teologici, mi agghiacciano. 

Non capisco, tuttavia, per quale motivo tu commetta l’imprudenza di chiedermi un’opinione su certi temi riferiti alla cultura, e pretenda da me, apertamente, l’ipertrofia. Ho provato a sottrarmi più volte alla tua amichevole richiesta. Quelli come me si lasciano nella loro tana. Non hanno alcuna utilità. Se io non fossi troppo ironico per essere serio e non ridere di ogni cupa solennità, ti direi che la mia formazione è stata un abisso, un buco nero. Potrei solo millantarla, come qualcosa di vago e insincero.

Fino a qualche tempo fa ero estraneo al mondo delle Lettere. Con grande imprudenza, mi hanno messo la penna in mano da non molto tempo, invitandomi a scrivere. Per giunta in ambiti di alto livello. E, peggio ancora, pubblicamente. Per debolezza, ho ceduto. Sono stato svezzato sulla pubblica piazza. Cresciuto, errori e ingenuità, sotto gli occhi di tutti. Se parliamo della scrittura come qualcosa di formalmente cosciente, del rigore delle linee, delle forme e dei volumi espressivi, tutto quello che ne è uscito fuori, almeno nel recente passato, è stato più o meno l’infanzia della mia scrittura. Qualcosa indegno non dico di una bella penna, ma almeno di qualcuno che fosse degno di pretendere autentico rispetto, e dunque non merito assoluzione.

Oggi non sono più quello di allora. Ma, insomma, davvero, continuo a non sapere nulla. A essere il nulla. Non ho argomenti. Né titolo per parlare o autorità. Non ho un pensiero, ma improvvise eccitazioni scritte, pronte a essere destituite di valore appena ‘venute’. Non ho un pensiero, ma vaghe parole, e ogni parola mente. Pretendo inoltre il diritto di contraddirmi e lasciarmi solo prendere da pensieri, immagini e ombre che mi affascinano, inoltrandomi per abissi e sintesi, che sono divertenti, diversi, aspri e perfino inquietanti. Ogni lavoro di scrittura ormai mi terrorizza, o meglio, mi annoia a vampate la grammatica, la necessità di dare ordine al mio pensare caotico.

Per qualche motivo, ti ostini a parlarmi di letteratura, cultura, libri. Ma io non ho mai amato chi soccombe alla menzogna dell’arte e ai preti che si inginocchiano di fronte alla patria dell’Invisibile. Né gli ascetici anacoreti del deserto, meno che mai se da salotto. Né i flâneurs intellettuali o i creatori in vitro. Quelli che si trovano perfettamente a loro agio in questa frase di Nietzsche: “Nessun artista tollera il reale”. I complici di Proust, per il quale l’arte è, in assoluto, superiore alla vita e al dèmone meschino della banalità umana, che a sua volta sarebbe “peggio dell’animale”. È come guardare la vita a partire dalla visione che trovi nell’ultima, letale parte della Recherche – bene – e tuttavia vivere da castrati della fisiologia, per rifugiarsi nelle parole, il linguaggio, la letteratura, i libri, le idee, la scienza e sottrarsi alla letale volgarità del mondo, al suo reale fetore. Per questa gente in fondo il progresso è solo quello del genere umano che, con un soprassalto di vano orgoglio, si sforza di uscire fuori dallo stato di natura. A me ha sempre ripugnato questa vita che ha orrore del suo stesso atto. Questa visione in cui avverti il fetore del contronatura, il suo controllo dispotico, la tirannia. Il giubilo dell’antinatura. Il compiacimento nell’artificiale che onora l’esorcismo dell’incolto. È l’immaginazione che tradisce il reale, amico mio.

Oggi, perfino un misantropo e un cinico, uno scettico e un pessimista può eleggere Promoteo a suo dio, Sade a suo mentore, Darwin a padre e Proust a suo totem letterario. E credere dunque in qualcosa o in qualcuno. Dopo aver distrutto tutto e aver fatto del nulla e il disinganno un programma, inebriandosi tra i vicoli ciechi, nella beatitudine di un supremo rifiuto, l’incanto della desolazione. Sfoggiando, compiaciuti, l’epopea della non vita, poiché per loro la malattia più terribile è appunto la vita.

Felice Giani, Apollo scortica Marsia, 1796-98

Ti ostini a ignorare il paradosso. Tutto il fenomeno della cultura è questa cosa qui. Un maestoso vicolo cieco. E ogni avventura sovrana ha la sua dose di falsità, di patetico. Le sue follie. La sua stupidità. I suoi errori e orrori. Le sue illusioni. I suoi abbagli elevati a moneta corrente.

Il realismo uccide l’arte, si lamentano gli artisti, ma a sua volta l’arte e la conoscenza uccidono o umiliano la vita, con la pretesa di trasfigurarla, di attutire la sua durezza rendendola sopportabile. La stessa letteratura, perennemente parallela alla terra, si presenta come alternativa a ciò che sembra essere reale. Quando viene meno questo compito, lamentano perfino “la decadenza del mentire”, dell’utile menzogna dell’arte. Come faceva Oscar Wilde, per il quale “tutta l’arte cattiva deriva da un ritorno alla vita e alla natura”. È l’incurabile anemia. Arcano terrore per la materia che muta in atavica ostilità, in raffinato esorcismo. Il fetore del reale trasformato in profumo letterario, che si scioglie in una trama vaporosa, immateriale. Nessuno di loro conosce più le unghie listate a lutto dal sangue e il fango della terra, una bellezza spontanea, crudele e organica. Annegano tutti nella tortura dell’intelligenza, sopraffatti dal loro incedere erudito. Un territorio spirituale in cui il mondo reale diventa per lo più un pretesto per le loro riflessioni.

Sono tutti dominati dall’intelletto come un depravato con la fica. Risucchiati dalla loro stessa mente. Sprofondati in una vita fatta di libri, e dai libri, il potente nano di Recanati lo sapeva, poca vita. Per lo stesso Borges, questo avventuriero immobile, il Paradiso era una biblioteca composta da novecentomila volumi… ahimè, credeva ancora nei libri. I più sterili di tutti, paradossalmente, sono i bibliomani che allo stesso tempo coltivano la pornografia. Sono tutti agnelli che sognano di essere lupi con i mezzi della mente. Perfetti esemplari di viltà.

Nel tempo ho soggiornato più volte, per lunghi periodi, alla Yale University. A New Haven, nel Connecticut. Allora andavo alla “Sterling Library” e alla “Beinecke Library”. Molto belle. Lì trovavi tutto, ma proprio tutto, in qualunque lingua. Sono istituzioni che hanno in dote molti mezzi. Una simile impressione la ebbi anche alla “Public Library” di New York, a Bryant Park. Venni colpito dalla potenza del sapere. Dalla sontuosa e dedita cura nel coltivarlo. C’è qualcosa di misterioso in questi luoghi. Di sovrano. Ma anche una prestigiosa sclerosi. Qualcosa di eterno, ma eterno come le ragnatele negli angoli delle biblioteche. Un velo di polvere che soffoca e atterrisce ogni linfa. Per contraccolpo e passione dell’anomalia, da totale idiota, io immagino sempre il torvo bagliore di un passato remoto, un lupo preistorico, aggirarsi tra quei corridoi, a compromettere con un sussulto organico la compostezza inanimata degli scaffali, di una natura morta. Qualcosa che polverizzi il sigillo dell’impotenza, l’anemia delle perplessità, lo scrupolo dettato dall’accesso di raffinatezza. Penso al carisma in grado di offuscare l’umano, ossia la semplice letteratura. A una stirpe dell’imprecisato che si opponga all’estinzione dell’inverificabile, contro chi ha la pretesa di fornire la chiave del nostro essere, la formula del nostro destino. Tutto, qui, è limpidamente opaco, equivoco, come la vita reale.

Le cose più vere e potenti, amico mio, le leggi e le impari solo dai pensatori inutili. Dai grandi solitari. E perlopiù da molti pensatori e scrittori equivoci che se ne fregavano della maggioranza, dei professori dell’ottimismo, dell’idea dell’evoluzione e della perfettibilità infinita e “naturale” della specie. Da quelli che avvelenano l’esistenza comunale, per sfoggiare un agguato senza tregua e allineare l’ordine di un naufragio. Quelli che, nell’abusare del paradosso e della provocazione, constatano la realtà, le cose come sono, il nulla del mondo, che annotano con scrupolo senza indicare rimedi.

Personalmente non sono mai riuscito ad aggrapparmi alle cose umane. Alla Legge, allo Stato, al Lavoro, alla Morale, a Dio. All’Amore, al Matrimonio, alla Famiglia, al Padre. Alla Scienza, alla Filosofia, alla Critica. Né all’Arte, alla Poesia, al Religioso, alle Lettere. Né alle parole, ossia al verbo in quanto religione della parola, della forma, dello stile. Al culto dell’alfabeto, ossia la parola come un dono per una aristocrazia che lotta contro la stupidità del mondo. Alla grande superstizione dei metafisici, il linguaggio, l’arca dei grandi malati, come parola per assimilare al nulla la carne e deviare da lei. La lingua come una Patria. Sono tutte pretese sgargianti sul nulla. La letteratura, la poesia e la cultura dotte, ormai, sono solo finzioni euristiche, le soluzioni o la provvidenza di una illusione fin troppo consapevole di esserlo, che ha smesso, insomma, di aderire al mondo. Un vaneggiamento di cui farsi beffe.

Bartolomeo Manfredi, Apollo e Marsia, 1616-20

Amo chi sa scrivere dell’estremo con in dote lo charme geologico delle immagini, colui che ti fa immaginare la prima voce che si sia levata dal folto della foresta. Cerco la lingua vischiosa del demiurgo e non dello scrittore, del creatore e non del creativo delle Lettere, o almeno colui che ti dà questa illusione. Pretendo un linguaggio che all’estremo, all’evidenza della cosa terribile restituisca il suono, il tono, gli umori e il fetore al di là dell’umano, che umilia la cultura da note a piè di pagina. Un pensare e scrivere in scatto e assalto, autarchico, che non chiede, non dice, morde, avanza, sinuoso al mondo, con ironia lirica, rapace. La sintassi, le regole, sono la morte civile della lingua, e la lingua della vita è per sua natura contorta, un pitone, mica un reggimento in trincea. Bisognerebbe scrivere a quattro zampe, parlare come si corre o si ascolta il vento, in acqua, sempre sull’orlo di qualcosa.

Ho grande rispetto per la natura e per gli animali. Onoro quei pionieri di frontiera che hanno un atteggiamento solenne di fronte alla morte di un animale e non provano mai il desiderio di festeggiare, ma solo gratitudine. La Natura non è un Paradiso. È letale, durissima. Tutto, lì, vuole farti fuori. L’ambiente, i fenomeni, gli animali, le malattie, i parassiti. Eppure capisco meglio gli avventurieri, gli spazi aperti, vergini, l’ultimo posto dove l’uomo non detta le regole, l’ultima frontiera. Chi non sfugge il contagio degli elementi. Il carisma della creatura. L’impertinenza dello sguardo animale. Lo charme geologico. Chi, scrivendo, rivaleggia con gli eoni, le ère geologiche, l’animale, la ferocia e la violenza. Le Lettere le lascio agli altri.

 Il mondo culturale è pavido, grigio e perlopiù inesistente. È il vile tumulto di un morbido assedio che non produce più vita. Tumulato nel marcio clamore degli anni che passano, assomiglia al corso fermo dei fiumi, con neanche più l’ombra di una preda degna di questa nome. Dunque va sputtanato, sputtanandosi.

Alla prossima,

Luca Orlandini

*In copertina: Jusepe de Ribera, Tizio, 1632

Gruppo MAGOG