Dio del cemento
Dio del cemento catturami negli anfratti
tra i solai dimenticati di case in rovina
percuotimi lungo i binari che sfilano verso sud
nella cancrena quotidiana di un seme gettato a caso
incastrati nelle selve di metallo di sua maestà il progresso
avvitati negli interstizi di palazzi in gonorrea
sia mai che questa terra possa esser mia
sia mai che decanteremo qualche ode in vece tua
Dio del cemento conducimi all’immobilità del pensiero
tra caterve frastornanti di quesiti sovrapposti
e la giungla di proteine assestate tra i cartelloni
seguendo in parallelo la malattia tra le mangrovie
il sesso a pagamento nei canali abbandonati
e la droga germinante che trasuda come miele
tra le geometrie d’alveare di condomini caracollanti
sia mai che questa aria possa respirar con me
sia mai che il tuo pensiero di riflesso assomigli al suo
Dio del cemento diamoci un abbraccio
e baciamoci le mani al cospetto delle devianze
delle rovine che comunque sono gli specchi del nostro osare
della tristezza, dell’abbandono, di una suggestiva e sempre viva
e fantastica utopia
Alessandro Pedretta
Commento
È un bambino che ha già smarrito la speranza e gioca tra brandelli e macerie. La città, di contro, è solo apparentemente solida e ferma, tra puntelli e impalcature, nell’insondabile equilibrio dei palazzoni che si reggono l’uno contro l’altro. Il marcio la abita sotto la superficie. Le crepe sono pronte ad aprirsi fino al tracollo. Ogni barlume di civiltà è al limite, pronto ad annegarsi come la fiamma nel moccolo. La sensazione è quella di avere una malattia mortale e sapere di essere prossimi alla fine. La rassegnazione è allucinata. Il poeta corre incontro alla distruzione con una gaiezza da folle compiaciuto della catastrofe, senza avere più nulla da perdere. La poesia di Alessandro Pedretta, in Dio del cemento, Mora Editrice, 2016, ha il sapore terrificante di un sogno distopico alla Cormac McCarthy. La metropoli è l’ambientazione e la vera protagonista. Finalmente, si potrebbe dire, qualcuno contravviene al solito paradigma intimista della nostra tradizione e la smette di menarla con l’amore per la sua terra, in questo mondo, Italia compresa, che è divenuto un gigantesco e ovunque identico non-luogo. Il dio del titolo è appunto questo, l’entificazione demoniaca dell’essenza del nostro tempo che si manifesta con evidenza fin dalla crosta grigiastra che riveste le nostre città. Questo spirito, di cui il cemento è la metafora, si palesa poi nelle tante immagini che il poeta di Milano affastella con la consequenzialità micidiale di una falciata di mitra. Si pensi alle “caterve frastornanti di quesiti sovrapposti” che fanno venire in mente le decine di cartelloni pubblicitari che si vedono su strade e autostrade, e che recano incisi i sintomi di tutti i nostri malesseri: “Vuoi perdere peso in poco tempo?”, “Cerchi una casa più grande?”, “Non sai come arrivare a fine mese?”. Per non parlare di “la droga germinante che trasuda come miele/ tra le geometrie d’alveare di condomini caracollanti” che rende così superbamente l’angosciante architettura dei casermoni popolari di periferia e il loro destino deterministicamente ineludibile di generatori del degrado e della malavita.
Quasi romantica è, poi, la porzione finale del testo. Addirittura, nostalgica. C’è tutto il rimpianto per quella “fantastica utopia”, suggestivo sogno di un paese diverso, industriale, progredito, evoluto, al passo coi tempi, e che, come tutti i paesi che hanno seguito questo folle modello di sviluppo, si è unicamente trovato al cospetto delle sue rovine le quali, a futura memoria, rappresentano appunto “gli specchi del nostro osare”.
La poesia di Alessandro Pedretta ha il grande pregio di essere sociale, senza mai scadere nel prosastico. Il tono, anzi, si mantiene alto, quasi leggiadro nell’andatura, se non fosse che l’aggettivo risulta vagamente stridente associato al personaggio. L’autore si inserisce in un solco poco battuto, che vede penne di ineccepibile levatura, da Alberto Dubito a Simone Cattaneo, e che è l’unica strada di cui la poesia nazionale avrebbe realmente bisogno.
Matteo Fais
*
ics
La dura realtà dei fatti
abita qui con me con uno che abita con me
uno stanzone sotto a un neon, uno
che asserisce delle cose, afferma dei diritti,
dichiara dei doveri e, soprattutto, mi parla,
in perpetua emergenza di compagnia, di pasto e pastura,
rammaricandosi ad un infisso di alluminio:
una fantasima, che staccandosi dal muro, avvolta
dalla carta da parati fiorita muove
i suoi primi funambolici passi dentro il girello
di un amore funesto:
lo spettro incede rasente, a capo chino le pelle d’oca,
le pareti del bislungo box di un ricordo,
scelto tra l’ammoniaca dei suoi, lacrima
lungo il corrimano di un’esistenza tutta lampi
e tenaglie sporgendo nella stretta del pugno
il ballatoio di una candela che non dà conforto, e
spreme torchiandola fra lo stipite e il battente
l’aceto della nenia di una memoria:
la dura realtà dei fatti
dorme con uno sconosciuto in una carcassa
d’automobile, ha moglie e figli sui sedili sfondati,
erbacce tra i pedali, stringe un volante di fumo,
fa il clacson con la bocca: e una lunga
strada carambola ai suoi piedi, imposta
la triste curva che balugina l’apice della montagna
per serpeggiando disparire come un graffio sul vetro
in un vallone, e scorrere con l’acqua
nei tubi della casa di una donna mestruata,
giunta dal nord, da un Canada, come
giunge il vento artico a chiudere l’anno.
Alessandro Ceni
Commento
Quando si penetra nella mandorla di una poesia si è esenti da commento, si è in esilio dal comprensorio della comprensione. Le equazioni e le equivalenze in poesia valgono quanto una sfera di ghiaccio a mezzodì, in un Sahara avaro di dune. Ad ogni modo. Qualche pietra miliare bisogna pur conficcarla. Alessandro Ceni, classe 1957, esordio lampeggiante, poco più che ventenne, con I fiumi d’acqua viva, disciplinato alla lirica da Bigongiari e dalla sfrenata lettura di Dylan Thomas, ha scritto il libro di versi più alto degli ultimi decenni. S’intitola Mattoni per l’altare del fuoco, lo pubblicò Jaca Book, era il 2002. Se andate in libreria, il libro non lo trovate, perché le librerie, oggi, sono come i McDonald’s sempre: propagano cibo fast. Cercate in libro in biblioteca. Fotocopiatelo. Alessandro Ceni è un poeta nascosto, uno che ha il sacro a fior di labbra: per questo dovete cercarlo come si cerca l’oro. Con i setacci. Nelle cave. Nelle profondità delle acque. Anche Combattimento ininterrotto, la placca poetica pubblicata da Effigie nel 2015, non la troverete in libreria. Non scoraggiatevi: è bello così. La poesia chiede coraggio in chi la legge. Contattate l’editore, fatevela spedire. Alessandro Ceni, poeta di rara vertigine, che fonde la perizia linguistica (una parola riesumata come “fantasima”) al gergo biologico (“la dura realtà dei fatti”), l’altezza esoterica (“lacrima/ lungo il corrimano di un’esistenza tutta lampi”) al gong quotidiano (“ha moglie e figli sui sedili sfondati,/ erbacce tra i pedali”) è grande traduttore dei grandi anglofoni, da Coleridge a Stevenson, da Joseph Conrad a Lewis Carroll e Charles Dickens. Il letterato vedrà nella magnifica ics il ritmo di Walt Whitman e l’urbanistica linguistica di Herman Melville, entrambi autori tradotti da Ceni. Io, invece, vedo l’incedere dello sciamano. Ceni, senza lo strepito dell’ossesso, con la cura artigiana di chi intaglia una sedia, è passato per diverse, divergenti tradizioni: quella estremo orientale, taoista, induista, quella dei nativi americani, degli evangelisti appena cristiani. Ceni pare il pastore siberiano di anime, che accarezza i capelli ai morti e dissigilla le labbra ai perduti, per il solo sapere che quella parola ha lo scintillio di un lago. Alieno da sfoggio intellettualistico, Ceni foggia la lingua come si scava l’osso frontale di una balena. Di ogni cosa valuta l’intero percorso della memoria, dal delirio alla gioia, con dedizione che sa di Artico. Colonizza la nostra gola di igloo. Non c’è meraviglia. Ma toccare la tigre che fugge.
Davide Brullo