Poteva esserlo allora, nel 2007, quando uscì la prima edizione, e poteva esserlo oggi, nel momento in cui è stato riedito: un’occasione buona per far godere, e non poco, i lettori italiani di Kafka. Non lo fu e continua a non esserlo, per evidenti limiti e mancanze che segnalo oggi più di ieri, quando ne scrissi.
Parliamo dell’edizione completa della corrispondenza intercorsa tra Franz Kafka e Max Brod, l’uomo cui il grande scrittore di Praga restò legato da lunga, stretta e in parte misteriosa amicizia dal 1902 fino agli ultimi giorni di vita. C’erano tutti i presupposti perché ci si trovasse di fronte ad un evento editoriale: fino ad allora infatti era fruibile il solo corpus epistolare kafkiano indirizzato all’amico (per la traduzione di Ervino Pocar nell’edizione delle Lettere, Mondadori, 1988).
I traduttori e curatori di quel corposo Max Brod-Franz Kafka, Un altro scrivere. Lettere 1904-1924, edito allora e riproposto oggi senza alcuna revisione della traduzione (consiglio di sospettare del traduttore che non ritenga necessario rivedere, e magari correggere, una propria versione dopo oltre 15 anni), senza lo spostamento di una virgola da parte dell’editore (Neri Pozza, 2024), si erano divisi diligentemente il lavoro: a Marco Rispoli le missive di Brod, a Luca Zenobi quelle di Kafka (pur tenendo conto della storica versione di Pocar).
La stessa Introduzione è divisa a metà tra i due. Risultato complessivo: si poteva fare meglio. Anzitutto perché un epistolario di questa portata, per essere correttamente letto ed interpretato, ricco com’è di riferimenti alla contemporaneità culturale e alla diffusa trama di rapporti in essere dell’uno e dell’altro (Brod soprattutto) con personaggi rilevanti dell’epoca, necessitava di un indice dei nomi. In secondo luogo, d’altrettanta utilità per il lettore italiano sarebbe stato anche completare in nota i riferimenti alle opere che nelle missive vengono citati: in alcuni viene fatto, in altri no. Vai a capire perché non si possa informare il lettore che il Mein Weg als Deutsche und Jude di Jakob Wassermann è stato pubblicato appena l’anno scorso da Giuntina, o che Il Golem di Gustav Meyrink è disponibile grazie ad un’edizione Bompiani del 2000. Da questo punto di vista dunque un’edizione sprecata, quantomeno “inadeguata”.
Altri limiti riguardano invece la lettura che del carteggio fanno nell’Introduzione i citati Rispoli e Zenobi. È poco noto purtroppo al cospicuo popolo di lettori kafkiani italiani che Brod, almeno inizialmente, non mise mano da solo all’edizione postuma dell’opera di Kafka. Con lui lavorò, almeno fino a un certo punto, lo storico delle religioni Hans-Joachim Schoeps (1909-1980). All’origine di questa censura (che occorre dire non essere solo italiana, ma anche tedesca) il fatto non secondario che Schoeps era anch’esso ebreo, ma fieramente filo-prussiano, dunque fautore convinto dell’integrazione ebraico-tedesca e proprio per questo attratto dalla personalità e dall’opera di Kafka. Nelle memorie di Schoeps è possibile leggere di quando, ancora giovane studioso, ebbe modo di lavorare per giorni al lascito kafkiano nel caveau di una banca di Praga, nel 1929, cercando di “mettere ordine nei frammenti di Kafka”. La collaborazione tra Brod e Schoeps, documentata anche da un interessante scambio epistolario intercorso tra i due, produsse la pubblicazione a Berlino, nel 1931, di una serie di 19 racconti e di due serie di aforismi kafkiani dal lascito, tutti risalenti al 1917, anno per tanti versi decisivo nella biografia di Kafka. La stessa postfazione a quel volume fu firmata da entrambi i curatori ed il progetto cui i due stavano lavorando non era cosa segreta, tanto da essere ben noto anche a Walter Benjamin e Gershom Scholem. Ciò che divise Brod e Schoeps, costringendo quest’ultimo all’esclusione dalla successiva opera di pubblicazione degli inediti kafkiani, fu proprio l’intento, da parte di Brod, di reclamare Kafka alle ragioni del sionismo.
Per il resto, la lettura di Rispoli e Zenobi regala pagine interessanti per comprendere le tematiche kafkiane in relazione alle sollecitazioni provenienti dalle missive di Brod (i rapporti con le donne, il complesso paterno, la relazione tra letteratura e vita, l’attrazione demonica, la paura della morte). Ciò che non è reso tuttavia a sufficienza è il valore letterario delle stesse lettere di Kafka (al contrario di quelle dell’amico, così intrise di cronaca “mondana”). Inutile dunque sottolineare, come fanno i curatori, la limitata presenza di riferimenti all’opera letteraria kafkiana: nella quasi totalità dei casi ciascuna lettera di Kafka può dirsi a pieno titolo parte della sua opera e come tale va letta. “L’oblio di sé è il primo presupposto dell’attività di scrittura” (così da una lettera di Franz del 5 luglio 1922): questa era la regola e come tale doveva valere per ogni forma, dunque anche per quella epistolare. Non sarà necessario ricordare qui la complessità e il valore letterario degli altri carteggi kafkiani.
Tuttavia, la dimensione totalmente censurata da Rispoli e Zenobi, nella loro pur succinta interpretazione, è quella della domanda di felicità, vero nucleo propulsivo e metro per comprendere l’origine dell’opera kafkiana. Domanda tanto decisiva da affidare alla scrittura, nelle sue varie forme, il proprio, più serio tentativo di risposta. In una lettera dell’11 aprile 1909 all’amico Max, dopo essere rimasto colpito dalla lettura di un suo componimento, Kafka sintetizza quella che è stata l’unica soluzione possibile all’interno dell’orizzonte che attorno alla sua finestra, di fronte alla quale spesso sedeva o immaginava di sedersi, gli apparve sempre “troppo vasto” per essere sopportato:
“Se si abbraccia saldamente la poesia, ci si convince di poter uscire dall’infelicità senza fatica propria, con la gioia dell’abbraccio, in modo più reale che nella realtà”.
Vito Punzi