Uno scambio di email a stagioni invertite—ancora estate in Australia, ancora inverno in Italia – e nella mia casella di posta arriva questa Villanelle degli incendi del poeta ambientalista australiano John Kinsella, già noto al pubblico italiano, soprattutto per la sua brillante rivisitazione della Divina Commedia (Divina Commedia, Viaggi attraverso una geografia regionale, Poesie scelte—a cura di M.C. Biggio, prefazione di John Alfred Scott, Disegni di Urs Jaeggi, Raffaelli Editore, 2014).
La forma distintiva della Villanelle nata in Italia nella prima metà del XVI secolo – 19 versi, 5 terzine seguite da una quartina, 2 ritornelli e 2 rime nel primo e nell’ultimo verso della prima terzina, che vengono poi ripetuti alternativamente fino all’ultima strofa che comprende entrambi i versi – si colma e trabocca del carico di dolore-disperazione-angoscia-senso d’impotenza di Kinsella per i roghi ancora fumanti che hanno appena divorato centomila kmq tra gli Stati del Nuovo Galles del Sud e il Victoria. Un’area vasta quando l’intero Nord-Italia ridotta in cenere, con punte ancora oltre i 40°, nubi di fumo che tingono di scuro le nevi e i ghiacciai della Nuova Zelanda, tonnellate di anidride carbonica immessa nell’atmosfera pari a quella di oltre 100 nazioni tra le meno inquinate. Un drammatico e dannatissimo circolo vizioso che non fa che incrementare gli effetti del cambiamento climatico, anche se c’è chi continua a negare che esso dipenda dall’intervento umano, mentre appare del tutto evidente che se non ci mettiamo subito tutti al lavoro per contrastare questo fenomeno rischiamo di scomparire dalla faccia della Terra. Questo ulteriore disastro ambientale di proporzioni apocalittiche va peraltro ad aggiungersi a quelli dei mesi scorsi in Siberia, Congo e Angola, Isole Canarie, Alaska, Groenlandia, Brasile e nella sempre più esigua riserva di ossigeno del nostro pianeta che è l’Amazzonia. Con l’Australia, agli antipodi rispetto a chi vive nell’emisfero boreale, si accresce per induzione la nostra percezione di una incontrollabile distruzione che infliggiamo al pianeta in questo nostro capitalocene, governato dagli interessi delle multinazionali nel cerchio di un mondo ibrido, multipolare e sempre più complesso da gestire. Con un’economia globale smarrita e frastornata da un incubo sempre più declinato come desolazione, devastazione e diffusa deprivazione, nel quale il tema dell’ambiente resta più che mai centrale, confermandosi come una delle priorità delle agende dei governi di tutto il mondo. I numeri australiani, anche da lontano, sono a dir poco spaventosi: decine di morti, migliaia di abitazioni distrutte, migliaia di sfollati senza più casa, miliardi di animali uccisi o dispersi dagli incendi, il 30% dei koala e 12% dei marsupiali morti carbonizzati, e quelli sopravvissuti che difficilmente riusciranno a superare i mesi successivi per predazione, mancanza di cibo e riparo in un habitat impervio e mortalmente silenzioso che ha visto il proprio patrimonio boschivo decimato, soprattutto le foreste di eucalipto e il bush.
La forma poetica piuttosto rigida della villanelle – amata, tra gli altri, da Sylvia Plath, Elisabeth Bishop, W.H. Auden, Dylan Thomas – offre al poeta di Perth la possibilità di creare una sorta di muraglia di resilienza capace di arginare la sua più che legittima ossessione per i dilaganti incendi e, al contempo, di stringersi implacabilmente intorno al lettore con un impianto formale che via via si dilata in dramma corale. Kinsella riesce così a delineare lo spazio di una urgente e radicale riflessione politico-sociale-ambientale estesa contemporaneamente al linguaggio e al mondo. Poiché il linguaggio, con i suoi modificatori fisiologici-temporali-sociali, è radicato sia nel suo passato cumulativo sia in un presente multiplo, far rileggere al lettore i versi che si ripetono permette a Kinsella di trasporre su piccola scala la perennità del danno e del cambiamento climatico. L’unico spiraglio di speranza e rinascita, percepito da chi scrive questa nota, viene dal grido di uno splendido kookaburra sopravvissuto ai roghi – posato sui tronchi residui di un albero carbonizzato e voltato verso il fotografo che l’ha immortalato in quel girone infernale – unitamente allo slancio vitale degli ultimi esemplari selvatici dell’antichissima Wollemia nobilis – una conifera risalente al Giurassico, praticamente un fossile vivente, dei cui semi sembra si cibassero i dinosauri – miracolosamente preservati in una gola a nord di Sydney. Lascio che il grido del kookaburra e il respiro delle fronde ariose delle Wollemia imprimano il solo ritmo possibile alla traduzione italiana della villanelle, dando invece il giusto rilievo all’urgenza espressiva del pensiero di Kinsella (e facendo mie le parole di Praz, che a sua volta si richiama al precetto del Rossetti traduttore di Dante, per il quale una buona poesia non deve essere trasformata in una cattiva). Posso così sentire la lingua italiana incendiarsi, correre cieca assieme ai roghi, urtare e sgangherare lo schema originale, rompendone il doppio gioco del metro e della rima. A notte fonda gli occhi continuano a vagare nel buio della stanza che, verso dopo verso, diventa protagonista, corpo vivente respirante tra le sue mura e uno stato d’animo apparentemente acquietato nel suo tremore dall’affetto. Ma il letto è un catafalco di animali carbonizzati ammassati e pressati gli uni sugli altri, strati di corpi in assenza che veicolano un unico, gigantesco corpo di crudeltà-violenza-morte fatto da milioni e milioni di fibre ormai inanimate. Indicibile l’orrore. Inconsolabile il pianto. Inscindibile la relazione tra vita e morte, Eros e Thanatos, bellezza e angoscia. Forse è questo quel che G. Steiner intende quando sostiene che siano sempre organiche le fibre d’interrelazione che connettono il pensiero filosofico dell’imparare a morire alle arti performative estetiche? Davvero pensiamo, plasmiano in compagnia intima e in contraddizione con la morte? Di certo questa traduzione non può, non vuole essere una tana kafkiana. Eppure un fischio insistente riesce a insinuarsi nel silenzio mortale di questo rifugio in allarme, crescendo via via d’intensità. È una luminosa, modernissima, efficientissima, incessante sirena degli incendi. A ricordarci, smemorati come siamo, di fuggire dal fuoco quando lo sentiamo arrivare in questa nuovissima epoca del Pirocene. In questa notte rovente del mondo. In una notte rovente, sdraiati sopra le lenzuola, il fuoco potrebbe arrivare così svelto che riusciremmo a stento ad alzarci. (Maria Cristina Biggio)
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Villanelle of Fire
On a hot night lying on top of the sheets
watching lightning flashes without rain,
fire could arrive so fast we’d barely be able to rise.
These are the conditions of crisis,
a crisis we make by increments — portions —
on a hot night lying on top of the sheets.
In declaring war on fire, governments
distract from their ‘growth!’ and ‘development’ refrains,
fire could arrive so fast we’d barely be able to rise.
Some people will have a chance to evacuate, others
will be led to safety, and some will burn,
on a hot night lying on top of the sheets.
Will these containment lines hold back the climate-deniers,
the fire in its cauldron, its search for lost oxygen,
fire could arrive so fast we’d barely be able to rise.
We are all ‘in this together’, watching smoke-dead skies,
hearing billions of animals die in coaled undertones —
on a hot night lying on top of the sheets
fire could arrive so fast we’d barely be able to rise.
John Kinsella
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Villanelle degli incendi
In una notte rovente, sdraiati sopra le lenzuola,
osserviamo i flash dei lampi senza pioggia,
l’incendio potrebbe arrivare così svelto che riusciremmo a stento ad alzarci.
Queste sono le condizioni della crisi,
una crisi che noi creiamo per incrementi – porzioni –
in una notte rovente, sdraiati sopra le lenzuola.
Nel dichiarare guerra agli incendi, i governi
distraggono dai loro refrain di ‘crescita’ e ‘sviluppo’,
l’incendio potrebbe arrivare così svelto che riusciremmo a stento ad alzarci.
Alcuni avranno la possibilità di essere evacuati, altri
saranno tratti in salvo, e altri bruceranno,
in una notte rovente, sdraiati sopra le lenzuola.
Questi versi dell’isolamento terranno lontani i negazionisti climatici,
l’incendio nel suo calderone, la sua ricerca di ossigeno disperso,
l’incendio potrebbe arrivare così svelto che riusciremmo a stento ad alzarci.
Stiamo tutti ‘in questo insieme’, osserviamo foschi-cieli spenti,
sentendo miliardi di animali morire nei toni sommessi del carbone—
in una notte rovente, sdraiati sopra le lenzuola,
l’incendio potrebbe arrivare così svelto che riusciremmo a stento ad alzarci.
(traduzione di Maria Cristina Biggio)
*In copertina: William Turner, “L’Incendio delle Camere dei Lord e dei Comuni”, 1835